Il campo era libero ed io ero libero (Una storia vera di resilienza)

In Talento e responsabilità
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Possiamo fare qualcosa con o contro le avversità. Il concetto però va sul “fare” e poiché il problema implica una situazione di disagio, l’accento si pone sul “fare e resistere” mentre si fa.
In questo senso l’ottimismo e la fatica, il pensiero positivo e il sacrificio, il passo avanti e la resilienza, trovano la loro compenetrazione e il loro atto di nascita. Ma per passare a ciò che mi preme di più, alle istruzioni per l’uso, alle buone pratiche, come si nutre la resilienza?

Non voglio rubare il lavoro ad amici più in gamba di me come Pietro Trabucchi o Giorgio Nardone, tanto per citare due esperti che hanno scritto pagine illuminanti sulla resilienza, cui vi rimando per un approfondimento. Farò quindi riferimento ad una piccola, antica, autentica storia personale in un tentativo di mettere su carta qualcosa di originale e adeguato ad essere interpretato come un garbato suggerimento.

A dodici anni vedi il mondo dal basso e ti sembra che sia sproporzionato alle tue dimensioni.
Questa sproporzione gioca a tuo sfavore e tutto è troppo alto, distante, costoso, grande, faticoso, lungo e lontano per permetterti di avere una vita facile.
Con questa melanconia che come un filo rosso percorre qua e là la mia esistenza mi avvicinavo al campo da calcio in sabbia battuta, di mattina presto, in una di quelle estati degli anni ’70 scandite dall’acquisto di un economico gelato Motta al pomeriggio durante le prime vacanze popolari estive al mare.

Il campo era pieno d’acqua, dopo l’acquazzone notturno, campo allagato ancora una volta, troppo grande, troppo vasto, troppo enorme perché potessi ripulirlo da solo. Disperato è la parola giusta, per un ragazzino che vuole solo e soprattutto giocare a pallone, come Rivera, Anastasi, Cuccureddu, Burnich, Mazzola, Riva.

Poi c’era un ragazzo. Passava la notte dormendo in un auto, una Lancia Fulvia rossa, un ragazzo quasi uomo, che a me sembrava l’incarnazione di Jim Morrison.
Troppo bravo a giocare a calcio, troppo bello e di successo con le ragazze della spiaggia, troppo ribelle verso l’establishment , troppo in sintonia con sé stesso, per non sembrarmi una di quelle persona che hanno delle vibrazioni che vengono dritte dal cuore vibrante del sole, come avrebbe scritto Keruac.

Beh, in quel frangente, quell’uomo quasi fatto, visto la mia desolazione e il mio sconforto davanti allo sfacelo del campo da gioco impraticabile mi si accostò nella solitudine del mattino.
Mi mise una scopa in mano e disse: “Inizia a spingerla fuori, ci mettiamo un po’, ma per le 10 giochiamo” erano le 7.

Non ebbi il coraggio di discutere, anche se tutto implicava un bel po’ di rottura e fatica in solitaria. Non si discute con l’incarnazione di Jim Morrison. Iniziai a spingere l’acqua verso i canali di scolo. Ci avrei messo un secolo.

Dopo due ore Jim mi arrivò vicino e mi battè la mano sulla testa, come si farebbe con un cane simpatico, e guardandomi in faccia pronunciò delle parole che mi rimasero impresse come un tatuaggio.

“Ascolta ragazzo”.

Divenni tutt’orecchi.

“Tu ti troverai sempre bene nella vita”.

Ero attentissimo, come davanti a Rivera.

“Ti troverai sempre bene, perché fai quello che devi fare, senza discutere e senza perdere tempo”.

Giuro che ancora oggi questa frase, nella sua ingenua semplicità è quella che mi ha fatto superare molte prove.
Arrivarono altri ragazzini che, come Tom Sawyer in “Per dipingere uno steccato” di Mark Twain, fecero la gara per pulire il campo.
Non finimmo alle 10, ma alle 11, giocammo e la mia squadre perse.

Ma questo non ha importanza. Il campo era libero ed io ero libero.
Molto più libero di prima.

Persi la partita ma staccai un bel biglietto di sola andata per le montagne russe della realtà.

Non ho più rivisto il mio liberatore, e nemmeno ho mai saputo come si chiamasse, anche se sarebbe bello che sapesse che effetto ha avuto la sua ristrutturazione di quell’esperienza.
Chissà se lui si ricorda di quel mattino.

Del significato che ha saputo dare a un evento che poteva essere solo una delle tante frustrazioni per un ragazzino troppo piccolo per quella grana “tsunamica”.
Nessuna promessa di faticare poco, né di godere molto. Solo un rimando alla possibilità di potercela fare, di provarci, che poi le cose si sistemeranno.
Un sottolineare il come, piuttosto che lagnarsi sul perché.

Farmi diventare l’eroe di quella situazione volle dire molto per me, per il mio carattere e per l’attitudine di dare un valore positivo anche a ciò che non ne ha o che rischia di averne solo di negativo. Ho spremuto tanto quella piccola esperienza e queste sono le personali gocce di buono che vi ho estratto quanto ad aumentare la resilienza, se vi possono servire, sono vostre.

E’ importante:
1. Avere la stima di qualcuno che credi in gamba ed essere rassicurato sul fatto che lo sforzo che stai facendo avrà un esito positivo.
2. Accettare che il campo di gioco della vita si può allagare e che liberarlo fa’ parte della partita stessa e che per iniziare a giocare come prima si deve fare, e si deve fare qualcosa di non previsto e a prima vista sgradevole.
3. Costruire su queste certezze sulla tua capacità di sapere superare l’ostacolo altre certezze, in un circolo virtuoso via via più alto e più grande, che abbraccia tutta la tua esistenza senza perdere il senno e desiderare cose impossibili.
4. Essere persuaso che nessuno è migliore di te, ma anche che nessuno è peggiore di te e la nostra chiamata è spingere, con serenità e caparbietà, fino al limite estremo questa nostra eccellenza, indipendentemente da quanto lontano sia.
5. Sapere che a volte proprio non c’è da discutere e, dopo una adeguata riflessione, si deve agire .”

Da: “Aveva ragione Popper. Tutta la vita è risolvere problemi”. Ed. Franco Angeli

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