Quando il risultato sfugge per un soffio: o stai facendo molto male o molto bene

In Approfondimenti, La Grande differenza
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Uno tra i fenomeni psicologici più affascinanti è quello che gli studiosi chiamano “near win effect”. La cosa paradossale è che si tratta del principio perverso per il quale molti, troppi, si rovinano nel gioco. Ma anche di quel principio che ci ha, da sempre, mantenuto in vita.

“Un altro gratta e vinci per favore.” L’avventore al mio fianco porge alla barista il biglietto con cui ha appena vinto dieci euro, in cambio di un altro biglietto da dieci euro.

Sorseggio il caffè e penso che dopotutto il mio vicino di bancone sta in fin dei conti consegnando dieci euro ad una tizia sconosciuta, per avere in ritorno un pezzo di carta. Ma io lo so, non ho la mentalità del giocatore d’azzardo, complice una mamma molto pragmatica e una educazione “siberiana” che mi ha iniettato l’anticorpo verso il “vincere facile”. Ma questa è un’altra storia.

Nel frattempo, digito su Google “probabilità di vincita gratta e vinci” e trovo una bella esemplificazione a cura di Chiara Bertoletti su Vanity Fair.

“Avete più probabilità di essere centrati e uccisi direttamente da un oggetto spaziale (1 su 1.600.000 secondo lo studio pubblicato nel 2014 dal professor Stephen A. Nelson) anziché di vincere questi due premi (del concorso “Il Miliardario”). Ancora più probabile è che siate colpiti da un fulmine”.

Il mio compagno di bar gratta il nuovo biglietto, bestemmia sommessamente (in Veneto non è una cosa poi sorprendente e nemmeno totalmente irrispettosa, quanto piuttosto un modo, non condivisibile da tutti, per esprimere disappunto). Lo guardo e lui sembra rispondermi mostrandomi il biglietto che mostra una vincita di centomila euro appena mancata, per un soffio. Chiede ancora un biglietto alla signorina, venti euro sono passati, volontariamente, dalle sue tasche a quelle dell’erario: un miracolo, mi verrebbe da dire, in tempi di caccia agli evasori fiscali.

Un miracolo nutrito dalla speranza di sistemare gli assilli pecuniari con una scorciatoia, nonostante si conoscano bene le insidie in termini di scarse probabilità di realizzazione. Uno dei meccanismi attraverso il quale il mio compagno di bar è stato persuaso, chissà se lo sa, si chiama “Near win effect” ed è sia il motivo delle sue invocazioni al divino che la ragione per cui, indefesso e bramoso, comprerà un altro biglietto.

Le “quasi vincite”, abbinate a premi in palio consistenti, danno l’illusione al giocatore di essere a un passo dal premio, a un soffio dalla vittoria. “Dai, solo un ultimo sforzo e vinci” è il sussurro del Ministro delle Finanze certo mediato dalle scritte sul biglietto.

Motivazione e distanza dall’obiettivo

Il meccanismo non è esattamente nuovo, antropologicamente esiste da centomila anni e lo ha evidenziato sin dagli anni trenta Clark Leonard Hull, uno psicologo americano della Yale University, americano, studioso dei meccanismi motivazionali. Hull chiarì come il percepire un progresso apprezzabile nella strada verso gli obiettivi abbia un impatto sulla motivazione umana per perseguirli con più foga e determinazione.

Se la gazzella ti sfugge per un pelo o vedi all’orizzonte l’oasi, ci butti tutte le tue energie residue, più che se non dovessi usare solo la speranza.

Hull quindi sviluppò l’ipotesi del “gradiente di obiettivo”, per il quale la motivazione per raggiungere un obiettivo aumenta in modo costante dallo stato di inizio del goal allo stato di fine obiettivo. Più un traguardo ti sembra vicino, o ti sembra avvicinarsi, più insisti per arrivarci. Uno strano effetto per cui siamo più inclini a vedere il bicchiere mezzo pieno, che lentamente si sta riempiendo, più che uno vuoto che inizia a svuotarsi.

Anche altri studiosi come Kivetz, Urminsky e Zheng nel 2006 hanno confermato le indagini di Hull, definendolo come “effetto di progresso illusorio”.

Fornire l’illusione del progresso verso l’obiettivo accelera il tasso di sforzo nel raggiungimento degli obiettivi. Hanno confermato che l’investimento nell’inseguimento dell’obiettivo aumenta man a mano che aumentano le prove che ci si sta avvicinando all’obiettivo.
Come, ad esempio, avviene con le tessere fedeltà che spingono ad acquistare di più e che se vengono date già con alcuni punti caricate hanno un effetto persuasivo ancora più consistente.

Siamo fatti così

Noi umani funzioniamo così e pare funzionino così quasi tutti i mammiferi. Gli scienziati hanno infatti sperimentato le stesse dinamiche applicate ai roditori. In una gabbietta vengono posizionate tre luci associando l’illuminazione al contemporaneo rilascio di una ricompensa sotto forma di un bocconcino. Le tre luci possono illuminarsi a caso, fornendo combinazioni differenti.

Se tutte e tre le luci si accendono contemporaneamente, il topo vince la partita, il che significa che l’animale può raccogliere il cibo premendo una leva. Tuttavia, se i ratti premono questa leva quando non tutte e tre le luci sono accese, allora viene inflitta una penalità di tempo e devono aspettare alcuni minuti prima che le luci si accendano di nuovo. Un risultato molto interessante fu notare come i ratti fossero molto più propensi a premere la leva di raccolta dopo aver vinto (tre luci accese), ma tendessero a premere la leva anche quando solo due luci lampeggiavano (quando avevano quasi vinto).

La conclusione dell’esperimento confermò che umani e mammiferi percepiscono in modo pressoché identico una vittoria e una quasi vittoria; la quantità di dopamina rilasciata, in misura quasi uguale, attiva una motivazione a continuare il gioco, a prescindere da penalità e perdite pecuniarie.
Un’altra osservazione antropologica che ne derivò è che questo è uno dei meccanismi che ci conserva e ci fa progredire come specie: ostacoli continui, tentativi continui, progressi continui.

Giocarsi le proprie possibilità

Parlare di “near win” in un periodo in cui tanti cercano di giocarsi la vita a un bancone potrebbe essere fuorviante perché personalmente penso tutto il male possibile del gioco d’azzardo, ma non essendo né un prete, né un giudice, comprendo che è una opinione, la mia, irrilevante. E io in queste righe voglio parlare di cosa c’è invece di positivo e paradossale per quanto riguarda il mio campo, la motivazione degli individui, e come si possa usare utilmente questo fenomeno per sopravvivere e vivere meglio in questo ambiente sociale ed economico.

Mentre il gioco d’azzardo è una attività su cui generalmente pesa uno stigma negativo, tanto è vero che il Ministero delle Finanze, attraverso l’Agenzia delle Dogane e Monopoli, è costretto a condirlo di messaggi pubblicitari rassicuranti fatti di famiglie felici e baristi ammiccanti, il tentativo strenuo di raggiungere obiettivi personali e professionali meno improbabili e dove la volontà e il lavoro contino davvero, viene invece di solito considerato con molta più benevolenza ed attenzione.

Concentriamoci invece sugli obiettivi che abbiamo in mente. Nella vita, nel lavoro.
Quanto spesso manchiamo il bersaglio? Quante volte arriviamo vicino ma per un soffio non portiamo a casa la ricompensa a cui ambivamo?

In amore, nelle finanze, nello sport, nell’avanzamento di carriera.
Questo sfiorare il successo non appare positivo come dovrebbe. Il più delle volte viviamo male i momenti in cui manchiamo il risultato. La lettura che ne facciamo è sempre sconfortante. Siamo fallimenti viventi. Soprattutto in un mondo di “Supereroi da Instagram” tu rimani al palo a guardare, con un senso di inadeguatezza, i Ferragnez che si amano alla follia tra una Lamborghini ed un party al supermercato.

Quello che ho mutuato in questi anni di lavoro sulla motivazione è che mentre manchi il bersaglio, lo stai centrando. E se lo manchi di poco lo stai cogliendo molto più di quello che credi.
Credo, oltretutto, che il mancarlo di poco sia fondamentale per farci sentire che stiamo vivendo una vita interessante. Infine, reputo che centrare subito il bersaglio sia molto più infruttuoso dal punto di vista esistenziale e motivazionale che non raggiungerlo per gradi.

Considerare lo sforzo

Omari Swinton, un professore di economia di Harvard, ha studiato l’effetto della valutazione dello sforzo sull’apprendimento degli studenti.
Con un interessante esperimento ha dimostrato che se anziché valutare solo la conoscenza del contenuto i professori valutano anche lo sforzo compiuto dagli studenti (attraverso delle regole condivise bene precise), i risultati di apprendimento migliorano e la conoscenza risulta più approfondita e strutturata.


In linea con quanto diciamo, è significativo l’intervento al Ted di Carol Dweck ed in generale il suo concetto relativo alla mentalità di crescita.


Vi appare scontato come risultato? Forse, ma rimane che come degli studenti, molti di noi si avventurano nella vita cercando sempre la via più semplice per passare l’esame, quella che implica il minimo sforzo e spesso la massima furbizia.

Le ricadute sono almeno tre:

1. Rimani comunque impreparato o parzialmente preparato sulla materia. Poco o nulla si è depositato e quindi non riesci a costruire altro sopra a fondamenta così malferme.
2. Non ti sei appassionato né divertito nell’apprendere e nemmeno riesci a dare un collocamento nella tua narrazione personale a questa esperienza che risulta fine a se stessa.
3. Il futuro è bloccato, senza suggerimenti ed indizi. Sai solo che c’è l’hai fatta e magari nemmeno come.

Se dovessi sintetizzare, direi che il successo senza fatica è sostanzialmente sterile, affascinante, ma improduttivo di soddisfazione duratura e sviluppi.

Per converso se dovessi fare un elenco dei vantaggi del tentare e sforzarsi, anche se il risultato non sarà perfetto, direi che:

1. Diventi comunque preparato per futuri sviluppi, qualsiasi essi siano.
2. Hai dato significato alla tua esistenza passata e futura provando a te stesso che hai ancora margine di miglioramento, la prova ne è il fatto che puoi raccontare come hai sbagliato e di come conti di fare meglio la prossima volta.
3. Hai moltissimi stimoli forniti dalle aree in cui hai commesso errori su cui darti da fare.

Lo sforzo caratterizza tutta la vita. In ogni senso. Senza sforzo non c’è vita. Il successo è una risultante temporanea dell’impegno. Questo vale per i processi metabolici, sanguigni, cardiaci. Questo vale nel parto e nella sopravvivenza alle malattie, nella crescita delle piante e nella catena alimentare.

Se abbiamo capito qualcosa finora, a dispetto della fede, è che la vita è lotta, senza aspetti valoriali o moralistici, ma lotta ovvero uscita dalle condizioni contrarie.

Il premio Nobel per la letteratura Elias Canetti ebbe a dire che: “La vita è lotta, lotta senza quartiere, ed è un bene che sia così. L’umanità, altrimenti, non potrebbe progredire. Una razza di deboli si sarebbe estinta da un pezzo, senza lasciare traccia”.

L’intuizione di Canetti viene confermata dalla scomparsa di imperi e dinastie nei momenti successivi al raggiungimento del benessere e della comodità. Per lo stesso motivo, ci racconta lo storico greco Erodoto, “i persiani dopo aver conquistato un grande impero, desideravano spostarsi dalle loro aspre montagne verso una terra più ricca, ma Ciro il Grande lo vietò. “Le terre tenere allevano uomini molli”, li ammonì proibendo la mossa.

Ora è evidente che vincere nella lotta è una condizione senz’altro desiderabile ma che soddisfa solo momentaneamente e che per continuare a vivere si è tenuti a continuare a lottare.
Se la vittoria non viene trasformata in una piattaforma per riprendere il balzo, sfidando nuovi rischi, sostenendo nuove fatiche, ci si espone al pericolo della stasi e del declino inesorabile.
Il vincere con poco sforzo è ancora più pericoloso del vincere impegnandosi, perché dà l’illusione dell’impegno ma nasconde il declino delle capacità.

Non il fossato ma il vicolo cieco è il problema

Mi viene in mente un libriccino di Seth Godin, che illustra splendidamente la situazione e che si intitola “The Dip”. Ci sono quasi sempre tre “luoghi” in cui ci si può ritrovare lungo la via: il fossato, il vicolo cieco, il salto.

Il vicolo cieco è quella situazione nella quale si lavora tanto, bene o male, e non succede mai niente, non cambia mai niente. Come dice Seth “In merito al cul-de-sac non c’è molto da dire se non prendere atto della sua esistenza e accettare il fatto che, dovesse mai capitare di finirci dentro, bisogna assolutamente uscirne al più presto.”

Il salto è invece quella “rara” situazione nella quale il risultato si vede solo in un determinato momento, solitamente all’ultimo istante. Carriere in cui non succede niente sino a quando un evento miracoloso non stravolge la situazione. Un evento raro ma in cui molti credono, forse per paura di non ammettere di trovarsi in un vicolo cieco.

Ma la situazione più frequente, reale e interessante, è invece quella del fossato. Condizione che tutti abbiamo sperimentato e sperimentiamo quasi costantemente. Quando inizi qualcosa, un percorso, un nuovo lavoro, e ti senti animato da una motivazione inarrestabile. E quando poi un bel giorno invece cadi nello sconforto perché ti accorgi che è difficile.

Ecco, in queste situazioni, ci si appella o si provoca l’effetto salvifico del “near win”, effetto che, con altrettanto pragmatismo, rovina le vite alle slot machine. Bisognerebbe avere la logica, la lucidità, il cuore, per accorgersi che di strada se ne è fatta e che per quanto difficile non significa che hai perso; solo ancora non hai vinto, o “hai quasi vinto”.

Imparare dagli immigrati

In proposito, forse poche persone come gli immigrati possono farci da maestri. Diversi studi americani hanno rilevato come la mentalità dell’immigrato, frutto di provenienze da situazioni complesse e dure, sia un ottimo viatico per fare carriera. La mentalità da immigrato di successo è un prodotto della mentalità basata sul “near win”.

Ora, aldilà della accesa discussione politica e ideologica nel nostro Paese, sulla bontà e opportunità o meno dell’immigrazione o sul fatto che sia paragonabile per qualità e doti a quella americana, a me interessa sottolineare come i dati mostrino come quasi la metà delle aziende di Fortune 500 operanti negli Stati Uniti siano state fondate da immigrati o dai loro figli – compresi alcuni dei marchi più noti, da Apple e IBM a Disney e McDonald’s. E questo è dovuto a dei tratti comuni nel comportamento degli immigrati in un paese straniero che derivano dalla situazione di stress sia nel paese di origine che in quello di destinazione.

Un essenziale sesto senso, la capacità di anticipare false promesse e risultati imprevisti, l’attitudine ad iniettare passione intensa in tutto e uno spirito imprenditoriale che rende agevole accettare rischi tanto più grande è il circolo familiare a cui si deve rendere conto delle proprie scelte e che li sostiene nel momento del bisogno, sono gli effetti di un atteggiamento causato anche dalla capacità di tentare e “saper perdere” (o non ancora vincere) proprio perché da stranieri in terra straniera è logico che non si possa fare centro sempre.

Tornando al nostro fossato dunque: nel fossato significa che ce la stai facendo!

Il tuo vantaggio competitivo

Un altro motivo per il quale trovo onesto ed azzeccato il libro di Godin è che risponde bene alle logiche del mercato e ancora più a quelle di un mercato nuovo più complesso o, se volete, in crisi.

“Il fossato è l’insieme di scartoffie e lavoro intenso che occorre affrontare per ottenere il brevetto di sub. Il fossato è la differenza fra la tecnica semplice dell’esordiente e quella efficace dell’esperto, nello sci come nel fashion design. Il fossato è il cammino che separa la fortuna del principiante dal successo del veterano. Il fossato è la serie di barriere artificiali approntate per far emergere le persone come voi.” Seth Godin

E come raccontava Randy Pausch nella sua commovente “Ultima lezione”: “Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarli. Sono lì per fermare gli altri”.

Più una cosa è difficile, più non è per tutti, più persone si arrenderanno e più sarà per voi, se è quello che davvero intendete fare. È insomma il vero vantaggio competitivo del quale tutti ci possiamo dotare.
Fare molto di più dell’obiettivo preposto, resistere alla tensione, dare significato ai problemi, attraversare il fossato.

Bill Clinton lo ha descritto bene nella sua biografia “My Life” descrivendo il suo processo mentale dopo un atto di bullismo violento a cui venne sottoposto dai compagni: “Imparai che potevo prendere un pugno e che comunque avrei avuto più di un modo per resistere all’aggressione”.

Sappiamo che non vinceremo mai ma…

La radice di gran parte del nostro malessere psicologico non patologico va cercata nell’insicurezza che avvolge l’esistenza per definizione. La ricerca della perfezione è uno degli antidoti che la specie umana ha trovato per lenire il suo stress e i suoi attacchi di panico.

Intimamente sappiamo che non vinceremo mai, la vita terrena si conclude con una sconfitta inesorabile.
Edgar Morin coglie questo tema scrivendo che: “Come ogni essere vivente, l’uomo subisce la morte, ma a differenza di tutti gli altri la nega con le sue credenze nell’aldilà. La morte è infatti l’avvenimento più naturalmente biologico ma anche il più culturale, quello da cui nascono la maggior parte dei miti, dei riti e delle religioni”.

Come società post-industriale moderna e orientata verso un futuro senza fine abbiamo forse rimosso il pensiero della morte, soprattutto della “nostra” morte, perché inaccettabile in un mercato delle soluzioni a qualsiasi problema. Ma rimane che alla fine la battaglia più importante la perderemo, figuriamoci se possiamo vincere tutte le altre.

Ricercare la perfezione funziona, ed è un concetto ancora più elevato rispetto alla ricerca dell’eccellenza.
L’eccellenza prevede un paragone con altro, la perfezione no.
La perfezione è in sé assoluta, incomparabile, irraggiungibile visto che il mondo materiale è l’ombra della nostra coscienza, una copia grezza e approssimativa dei nostri ideali.
Ma l’antidoto, la cura ai nostri malanni dell’anima, la ricerca della perfezione, questo sì, è un atto perfetto e lenitivo. È perfetto perché infinito, continuo, incerto nei suoi frutti e ti espone alla necessità di continuare a migliorare.

Sei vicino, ma non abbastanza, ancora uno sforzo, ancora un piccolo miglioramento.

Sara Lewis, che insegna storia dell’arte a Harvard, lo ha magistralmente descritto in un suo speech su TED.

“Non prosperiamo quando abbiamo fatto tutto, ma quando abbiamo ancora molto da fare… Sappiamo che prosperiamo quando rimaniamo all’avanguardia.”

La ricerca della perfezione è la perfezione.

La ricerca della perfezione, non la perfezione, ti salva la vita e di sicuro l’ha salvata a me e ai tanti irrequieti come me, che si chiedono se è tutto qui e hanno bisogno di un fine per assaggiare la meraviglia dell’esistere, del fare, dell’amare e del morire.

La ricerca della perfezione è una strada che porta all’eccellenza come un volo interplanetario può farti incontrare pianeti nuovi e magari più belli di quelli già incontrati.
Ma il volo è senza fine.

È come cercare la perfetta Shangri-La, descritta nel romanzo del 1933 “Lost Horizon” dell’autore britannico James Hilton, una località immaginaria e di fantasia, una comunità da cui, eliminate per decisione di tutti i sentimenti più pericolosi, come odio, ira, invidia, avidità, superbia, avarizia e via dicendo, diventa un paradiso materiale e spirituale, appunto “perfetto”.

In tanti speranzosi la cercarono e non la trovarono mai. Il governo cinese nel tentativo di spingere il turismo addirittura ribattezzò la contea di Zhongdian, nel Tibet cinese, in Shangri-La, ma senza purtroppo renderlo davvero un eden.

“Dove sia tutti ne parlano dove sia nessun lo sa” diceva una vecchia canzone che parlava di Shangri-La ed anche noi parliamo spesso di successo senza sapere dove e cosa esattamente sia.

Vorrei allora suggerire alcune riflessioni che mi sembrano ragionevolmente utili per chiudere questa puntata sul “quasi vincere”.

Tre idee per vincere (o quasi vincere)

1. Quando mi sforzo e mi avvicino all’obiettivo, tutto mi dice che è così che deve andare e avverto che l’esigenza di mettere ordine, stabilità e sicurezza nella mia vita passa attraverso un altro tentativo. Un passo in più.
2. Non scappo più via dall’incertezza e mi spingo oltre l’incertezza e la paura facendo ciò che non mi piace, ciò che mi spaventa fare, un po’ meglio, un po’ di più, ciò che mi costa approfondimento e fatica perché lì è il senso ed il significato. Puntare alla perfezione sapendo che sarà come svuotare l’oceano con un cucchiaio ed è proprio questo il vantaggio competitivo di cui dotarsi.
3. Non esiste fine in questa ricerca, cosa nota a tanti esempi di uomini e donne che ammiro, come Arthur Rubinstein, che suonò in pubblico fino a 89 anni, ma è proprio questo che ci tiene in vita.

E infine.

Tentare il gratta e vinci, fisicamente o metaforicamente, non è il tuo futuro.
Il tuo futuro è tentare ciò che conta per te.
E tentare e non riuscire non vuol sempre dire avere perso, anzi.
Tentare di dare significato è già riuscire, tentare è un’altra parola per spiegare cosa significhi vivere davvero.

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