Nel 1980 Drucker scriveva di tempi turbolenti. E, non aveva visto ancora niente.
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Correva l’anno 1985 quando Steven Spielberg produsse uno dei film più iconici di sempre: Ritorno al futuro. Con Michael J. Fox nei panni del diciassettenne Marty McFly, lo strambo scienziato Christopher Lloyd nei panni del dottor Emmett Brown e Crispin Glover nei panni di George McFly. Gli anni ottanta erano anni che sapevano di nuovo. Che odoravano di un progresso che ancora non riuscivamo bene a immaginare, che molti, al pari di Spielberg, pensavamo caratterizzati di sicuro da robot, computer, distanze dimezzate o addirittura annullate, spazi riempiti non per forza da corpi ma da proiezioni tecnologiche e altre diavolerie simili.
A dispetto di oggi, niente di così elettrizzante né particolarmente complesso. Una radiosveglia, come all’inizio del film, avvisava le persone, specialmente gli uomini, che era ora di andare a lavoro. Una macchina a buon prezzo era quasi tutto ciò che serviva; unita ovviamente a un tetto sulla testa, qualcosa da portare in tavola, un lavoro, che di norma garantiva tutte e tre le cose.
Eppure c’era anche tanto di nuovo nell’aria. Nel mondo del business ad esempio si iniziava a sperimentare una diversa forma di pressione e competizione. Senza molti confini, globale, meno definita e prevedibile.

Nel 1980 ad esempio, Peter Drucker, tra i pensatori più fini e in anticipo sui tempi, aveva pubblicato un libro dal titolo emblematico: Managing in Turbulent Times .
Nel libro Drucker esponeva i grandi cambiamenti in atto, i rischi e le opportunità per i leader: trasformare minacce in opportunità, affidarsi alle analisi per comprendere ma soprattutto fare.
Molti dei concetti suonano ancora attuali, altri ovviamente appaiono anacronistici e parte di un mondo che non c’è più. Ad esempio, sull’invito al fare, all’azione, all’execution, al lettore di oggi, sorgerebbe più di una domanda: fare sì, ma cosa? Andare sì, ma dove?
Neanche i film di fantascienza più brillanti erano arrivati a delineare un quadro così complesso della situazione. In Ritorno al futuro, parte 2, ambientato in un ipotetico, 2015, ci sono molte cose che in effetti ci sono oggi familiari: come il sistema di controllo dell’auto usata da Doc, molto simile a Oculus e ai sistemi delle auto senza conducente, o la scena in cui Marty viene licenziato dal capo con una videochiamata, molto in voga nel film, e terribilmente attuali oggi. Gli scanner digitali con i quali si pagano i taxi, molto simile alla tecnologia di Apple Pay.
Persino i centri di ringiovanimento non sono così lontani da quanto già viene sperimentato (e discusso) in alcune parti del mondo.
Tuttavia, né Spielberg né altri si avvicinano alla difficoltà dei tempi che viviamo. Più che temi turbolenti, una vera e propria tempesta perfetta, fatta da fenomeni, problemi, istanze, che almeno a prima vista appaiono poco conciliabili tra loro: una su tutte, per anticipare la cifra di questi tempi, la necessità di lavorare ancora più duro, in tempi duri, e la crescente richiesta di calma, tregua, significato, che se non ascoltata sfocia in burnout e piccole e grandi dimissioni – Great Resignation.
Nelle righe che seguono provo a raccontare alcune di queste peculiari criticità, un racconto frutto di buone letture ma soprattutto del punto di vista privilegiato che ho la fortuna di avere, trovandomi e parlandomi quotidianamente a metà tra i leader (chi guida) e i dipendenti, le persone, coloro che cioè sono in attesa di indizi chiari su dove andare, come procedere, o se sia il caso di cambiare rotta, cambiare squadra.
Tanto rumore per nulla: “l’effetto Regina Rossa” quando tutto è più complicato
Per molti, lo smarrimento è simile a quello di Alice nel paese delle meraviglie, che nel nostro caso potrebbe essere nel paese delle “novità e delle complessità”.
Una scena in particolare, quella nella quale Alice si ritrova a correre sempre più veloce ma scopre di rimanere sempre allo stesso posto.
“Alice non riuscì mai a capire, ripensandoci in seguito, com’era che avevano cominciato: tutto ciò che ricorda è che correvano mano nella mano, e la Regina andava così veloce che era tutto ciò che poteva fare per stare al passo con lei: e ancora la Regina continuava a gridare ‘Più veloce! Più veloce!’ ma Alice sentiva che non poteva andare più veloce, anche se non aveva più fiato per dirlo.
La parte più curiosa della cosa era che gli alberi e le altre cose intorno a loro non cambiavano mai posto: per quanto veloci andassero, sembrava che non passassero mai nulla. ‘Mi chiedo se tutte le cose si muovono insieme a noi?’ pensò perplessa la povera Alice. E la regina sembrava indovinare i suoi pensieri, perché gridò: ‘Più veloce! Non provare a parlare!’”

Sfruttando la metafora, negli anni settanta, il biologo evoluzionista statunitense Leigh Van Valen, propose l’ipotesi “Queen Red” per la quale le specie devono “correre” , evolversi, per rimanere nello stesso posto, oppure estinguersi. In parte simile alla più conosciuta teoria della selezione Darwiniana, la teoria della Regina Rossa è stata spesso usata anche al di fuori del campo scientifico, ad esempio parlando di business, per evidenziare l’accentuarsi della competizione e i crescenti rischi non solo del rimanere fermi ma anche del “non correre altrettanto veloce” degli altri attori in gioco.
Tuttavia, calando il concetto ai tempi che viviamo, forse neanche correre veloce o veloce quanto gli altri potrebbe bastare.
La teoria della disruption, resa celebre da Clayton Chriestsen, ad esempio sembrerebbe mettere in discussione l’idea che basti correre veloce quanto un concorrente. Per disruption infatti intendiamo non solo “un’interruzione” che sconvolge un mercato ma soprattutto che lo “sorprende”. I disruptor crescono per definizione nel silenzio, in altri settori (spesso non tenuti sott’occhio e monitorati) e quando sono pronti per esplodere è quasi sempre troppo tardi. Blockbuster fatto fuori da Netlix è un esempio ancora ben presente nella memoria. Ma ancora più emblematica è la storia di Nokia, che nel 2009 sborsò l’incredibile cifra di di 8,1 miliardi di dollari per acquisire Navteq, una compagnia di navigazione e mappatura stradale con l’obiettivo di competere con Google nel campo dell’informazione in tempo reale. Appena qualche anno dopo si trovò spiazzata da Waze, ai tempi sconosciuta startup israeliana, che sfruttando i sensori Gps integrati nei cellulari degli utenti rendeva obsoleta ogni precedente, capillare, costosa e non aggiornata, mappatura.
Casi come questi, ma ce ne sono ovviamente tantissimi altri, mostrano come nell’era moderna, digitale e complessa che viviamo, correre sia necessario ma non sempre sufficiente. Importa molto più la direzione, la capacità non tanto di guardare al futuro ma, per citare ancora Drucker, di comprendere quel futuro che è già qui e che fa la differenza.
I nostri tempi, da quando almeno abbiamo sperimentato cosa significhi una pandemia, ci hanno ricordato inoltre chi sia il più pericoloso dei disruptor: il cambiamento stesso, l’incerto, l’imprevedibile.
A furia di “manca poco ed è finita”, “andrà tutto bene”, “chissà quando torneremo ad abbracciarci”, sono passati ormai due anni e siamo ogni giorno circondati della stessa incertezza e incapacità di decifrare il futuro. Anzi, se abbiamo trovato una certezza è proprio che dobbiamo imparare a convivere con eventi “disruptive” di questo tipo – è da poco uscito il nuovo libro di Bill Gates su come affrontare la prossima pandemia, e gli scienziati concordano sul fatto che sistemi così complessi e interdipendenti come i nostri siano per forza di cose soggetti inevitabilmente a crisi sempre di portata sempre più impattante e globale.
Non possiamo di certo evitare di chiederci “verso cosa correre?” Ma rispondere richiede necessariamente approcci diversi dal passato.
Serve come si diceva già: un pensiero da stratega, un approccio da primitivo.
Serve tanto microvelocità che macropazienza. Velocità nelle cose quotidiane – mi piace seguire la regola del “tre metri e tre giorni”. Macro pazienza orientata a tempi molto più lunghi, quel longterm nel quale possiamo minimizzare forse l’impatto di imprevisti e casualità.

Prestazioni forti, umani “deboli”
Che crisi è quella che stiamo vivendo? Una crisi di “tutto”.
Sono in crisi le catene di approvvigionamento. É una crisi di offerta come abbiamo ormai imparato.
Ma anche una crisi di domanda. Con una situazione economica sempre più tesa, colpita sempre più duramente da inflazione, rincari energetici, tensioni internazionali, incertezza e paura.
Una crisi di “chi fa le cose”, se pensiamo alla Great Resignation e la caliamo concretamente nella mancanza di manodopera e manodopera qualificata.
È uno di quei momenti “duri” in cui solitamente i “duri” iniziano a giocare. Come aziende, come leader, manager, vorremmo persone capaci di surfare i problemi e portare comunque a casa i risultati.
In una tempesta perfetta servono risultati, pena un veloce e drammatico naufragio.
Tuttavia, e qui si complica il problema, i risultati possono portarli solo le persone. Che, in qualità appunto di persone, di esseri umani, sono stanche, provate, impaurite.
C’è un problema almeno all’apparenza irrisolvibile: nel momento in cui servono prestazioni forti le persone, tutti noi, si scoprono deboli e cercano calma, tregua, compassione.
In un sondaggio globale su 300 dirigenti aziendali senior in settori che vanno dall’ospitalità all’automotive alla biotecnologia, il 61% ha riferito che stanno lottando per bilanciare il bisogno di supporto dei dipendenti con la spinta della propria azienda per prestazioni elevate.
Duplice esigenza, duplice problema.
Da una parte sappiamo che il benessere delle persone è il requisito essenziale per avere risultati. Così come, sappiamo che è il più importante fattore su cui si gioca la partita dei talenti: attrarli e mantenerli, in questo periodo in cui “lasciare” sembra così allettante.
D’altra parte, il gioco economico non sembra consentire tanta pazienza e sembra quasi che la situazione comune sia un “vorrei ma non posso”, “vorremmo ma non possiamo permettercelo, non ora”.
Da un punto di vista teorico: siamo tutti stanchi e preoccupati, e soprattutto possiamo comprendere tutti come anche gli altri siano stanchi e preoccupati.
In pratica: il motivo della nostra preoccupazione, l’incertezza, la stanchezza accumulata e sperimentata ogni giorno, sono una miccia sempre pronta ad esplodere.
Ciò porta, come è stato dimostrato, a un’era di conflitto. Conflitti quasi sempre non dovuti a divergenze sostanziali ma a piccoli e grandi fraintendimenti, scarichi di pressione e frustrazione reciproca.
Come ne usciamo?
A dire il vero c’è da dire che non si tratta di qualcosa di completamente nuovo; esasperato sì nuovo non tanto. Unire risultati e umanità è sempre stata la sfida di ogni azienda, il vero compito di un leader.
E i veri leader, come hanno ricordato di recente anche Marco Mortensen e Heidi K. Gardner su HRB, sanno che si tratta di una falsa dicotomia: mostrare vicinanza, empatia, alle persone permette di ottenere migliori risultati; e migliori risultati permettono ambienti in cui è più semplice essere vicini alle persone.
I consigli sono in parte quelli di sempre:
Trasparenza e priorità
Bisogna ora più di prima essere onesti e trasparenti verso ciò che ci sta a cuore, che ci turba, che rende difficile il nostro lavoro.
In tempi duri non vincono i duri ma coloro che hanno il coraggio anche di rivelare la propria vulnerabilità.
Bisogna ora più di prima comprendere cosa conta davvero. Come leader ciò potrebbe significare nello stringere ancora di più quelle che dovrebbero essere le priorità per le nostre persone. Meno cose ma sulle quali non sbagliare. Avendo più apertura al dialogo, alla compassione, alla comprensione di quei piccoli dettagli che, pur importanti, non spostano gli equilibri.
Come persone. Lungo la scala gerarchica ma anche e soprattutto tra colleghi, abbiamo bisogno di ricordarci soprattutto oggi che i conflitti fanno parte delle nostre vite e che non è (quasi mai) una questione personale.
Le emozioni e la crescente tensione porta a ingigantire ogni problema e credere sia sempre una questione di “vita o morte”, “subire o aggredire”, di problemi irrisolvibili.
Non è affatto così.
È così se cerchiamo di “fare cambiare idea” al nostro interlocutore o se pensiamo dobbiamo essere noi a cambiarla – e chiaramente non ne abbiamo nessuna voglia.
Se però ci fermiamo e proviamo a comprendere le ragioni alla base di un’idea, ciò che sia noi che il nostro interlocutore vogliamo ottenere, ecco che allora un punto di incontro si può trovare.
Uno strumento utile è la “Nuvola in evaporazione”, noto anche “the cloud”, o “diagramma di risoluzione dei conflitti”.
Si tratta di un diagramma logico che rappresenta un problema che non ha una ovvia soluzione soddisfacente, ma che con il giusto approccio può portare a “vaporizzare” il conflitto e trovare un punto di incontro vantaggioso per entrambi gli attori coinvolti. Il sistema è abbastanza semplice ma efficace.

Il problema si può rappresentare nel Diagramma riempiendo le caselle.
Vanno evidenziati i legami di necessità tra ciò che si vuole fare e i bisogni soddisfatti e come questo spiega l’esistenza del conflitto.
Vanno portati alla luce gli assunti sbagliati oppure le soluzioni per rendere nulli gli assunti,.
In questo modo il legame di necessità tra azione e bisogno evapora.
A questo punto va adottata la soluzione trovata.
L’idea di fondo in poche parole è che se guardiamo azioni e intenti sembra un conflitto irrisolvibile, se guardiamo i bisogni che ciascuno vuole soddisfare troviamo punti d’accordo e “vaporizziamo” il conflitto.
Sembra complesso ma funziona.
Vecchio, nuovo, nuovissimo, praticamente incerto
Il dio romano Giano aveva due paia di occhi: una coppia concentrata su ciò che stava dietro, l’altra su ciò che stava davanti.

Questo l’incipit con cui, nel 2004, una vita fa, Charles A. O’Reilly III e Michael L. Tushman introdussero l’idea di “organizzazioni ambidestre”, l’approccio necessario per competere nel presente, sfruttando il passato, ma anche per anticipare e inventare il futuro.
Quasi vent’anni dopo, al nostro Giano servirebbero almeno due occhi in più.
Viviamo ormai una vera e propria era IBRIDA.
Non solo relativamente alla modalità di lavoro, divisa e combattuta, o più o meno bilanciata, tra remoto e presenza, ma di più fattori, modalità, diversità.
Siamo la società di ben 4 generazioni al lavoro. Siamo la società del progresso senza confini, la conquista dello spazio, ma anche e soprattutto quella della sostenibilità.
Siamo la società delle prestazioni ma anche e quella della Yolo economy, del senso e del significato.
Siamo la società capitalista per eccellenza ma anche quella di Bansky e di una pazza, giusta, voglia, di diversità. E inclusione.
Siamo una società in cui ancora le sfide del passato non sono state neanche minimamente superate, pensiamo al gender gap, ma dove per forza di cose bisogna abbracciare sfide nuove e ancora più provanti.
In tema di sostenibilità ad esempio, fa particolarmente riflettere la storia di Clean Creatives un’iniziativa bellissima che unisce agenzie e creativi che hanno firmato l’impegno di non offrire servizi ad aziende impegnate nella produzione e sfruttamento di combustibili fossili.

Siamo tutti contro la guerra e tutti contro chi “sporca” il nostro pianeta.
Ma cosa succede quando chi fa la guerra e sporca il nostro pianeta sono i nostri clienti?
Credo che questa sarà una riflessione sempre più urgente. Prendere posizione, ma avere il coraggio di farlo avendo la pelle in gioco.
Un futuro migliore non riguarda solo noi ma anche chi decidiamo di servire.
Un futuro sostenibile anche in termini di equità, etica, umanità.
Non abbiamo ancora vinto la sfida per raggiungere in maniera davvero efficace i nostri clienti ma già siamo chiamati ad interrogarci su nuovi canali e nuovi problemi.
Nelle settimane scorse ha fatto grande clamore la vicenda di Spotify, boicottata per dare spazio a schiere estremiste di novax.
Oggi, prim’ancora che il metaverso sia davvero reale (se mai lo sarà) ci si interroga su cosa significhi e cosa possiamo fare riguardo alle molestie virtuali.
Siamo ancora impegnati a vincere la gara di civiltà su inclusione e diversità ma ci troviamo al contempo alle prese con “problemi di etichetta” – sei sulla Salaria? e sfide per portare davvero nelle nostre aziende una nuova diversità: “il forte aumento della forza lavoro neurodiversa, composta da lavoratori con autismo, ADHD, dislessia, sindrome di Tourette e altre differenze di apprendimento e salute mentale.”
Nel 1980 Drucker scriveva di tempi turbolenti.
E, non aveva visto ancora niente.

Manager, Advisor, Autore, Speaker|
Per oltre trent’anni sono stato nel mondo delle vendite, iniziando da agente sino ad arrivare ad occupare posizioni apicali in aziende come Diesel, Adidas, 55DSL, OTB.
Parallelamente ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della motivazione e della crescita personale, convinto che spetti sempre a noi prendersi la responsabilità delle nostre esistenze.
Questo mi ha portato a studiare, cercare, testare, risposte ai continui quesiti della vita e del lavoro, come: “Perché alcune persone sono in grado di correre ultramaratone e altre faticano ad alzarsi dal divano?” “E perché le stesse persone che corrono una ultramaratona nel weekend, in ufficio svogliate ti rispondono: Prenditela tu la risma per la stampante?”
Da ormai vent’anni ho fatto di questo il mio lavoro e la mia missione, aiutando individui e organizzazioni a raggiungere gli obiettivi mantenendo la propria umanità.
Alcune delle aziende e organizzazioni con le quali ho collaborato, come formatore e speaker, comprendono: Amway, Banca Mediolanum, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Bayer, Calzedonia, Cassa Centrale ,CNA, Confartigianato, Confindustria, Giuffrè Editore, Herbalife, Juice Plus, Just Italia, JUUL, LIoyd’s, Liu·Jo, Lotto, Nespresso, Revlon, Scavolini, Sony Italia, UNIPD, Wella e molti altri.