Meglio invidiosi che in balia del caso

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Dicono che l’invidia sia un male ma da tempo non ci credo più. Credo invece che si rifletta poco e si tagli con l’ascia una situazione che avrebbe bisogno del bisturi. Penso che molti di noi siano incautamente in cerca di verità semplici e definitive, perché gli animi inquieti hanno bisogno di boe a cui aggrapparsi per non sentirsi morire di ansia.

Verità bianche o nere. Sentimenti buoni e cattivi. Quando poi tocchi gli impulsi è tutto una girandola di frasi fatte, di scatolette precotte di emozioni che devi provare per essere un uomo vero o una donna giusta. In queste righe voglio dunque provare ad essere sincero, trattare per una volta l’invidia dal verso del pelo.

Cosa ci hanno detto quando eravamo bambini

La storia si apre con Caino che uccide Abele per invidia. Eva che prende una mela per invidia. E invidia, letteralmente deriva dal latino in – avversativo – e videre, guardare quindi contro, ostilmente, biecamente o genericamente guardare male. Demonizzata oltre misura, ingabbiata tra vizi e peccati capitali, fin da bambino mi hanno insegnato che l’invidia è male e che dovrei vergognarmi solo a pensare in questa direzione.

L’insegnamento ha attecchito, e non riesco a non sentirmi in colpa quando mi succede. Come un monaco contrito tento di allontanare da me il desiderio di essere o avere qualcosa che io non ho ed altri sì e oltre alla sensazione di inadeguatezza che mi pervade rispetto alla persona oggetto della mia invidia, indubbiamente dolorosa, si aggiunge un senso di turbamento per non essere riuscito a fare a meno di invidiare.

D’altra parte però le emozioni negative, se ci sono, servono, e la crescita post-traumatica è un dato di fatto.

A complicare le cose poi c’è che collaborare è importante per andare avanti e l’invidia non consente di collaborare. Ecco perché probabilmente è una vergogna sociale provare questo stato d’animo. D’altro canto, ho visto una infinità di imprese finite male perché sotto l’ombrello di una falsa cooperazione, scevra di invidie, nessuno faceva più nulla. Un bel problema, un problema da bisturi come detto, che non è possibile risolvere con un grossolano colpo di ascia.

Invidiosi o stronzi?

Ricordo un collega gentile, troppo gentile quando ci rifletto su. La sua passione sembrava essere quella di tenersi aggiornato sulle mie vicende, sulle strade che la mia vita stava prendendo e su quanto fossero giuste o clamorosamente sbagliate. Ecco, soprattutto questo ultimo genere di traiettorie erano quelle che amava sopra ogni altra cosa.

Chiaramente si sforzava di non fare vedere la sua ossessione investigativa e la sua soddisfazione quando stavo male, che altrettanto chiaramente, almeno per me e soprattutto per le mie amiche e colleghe femmine, colava come l’unto delle frittelle che ti vendono al luna park. Così la sua richiesta di foto, news e “cosa fai di bello questo week end?” era in realtà una caccia al tesoro, o alla sventura. A sigillo di tutto ciò, il fatto che non mi aiutava mai, nemmeno un tentativo, solo parole da finto prete, tipo: “vedrai che tutto si aggiusta”.

La storia si chiude quando scopro che ha parlato di me al capo spiegandogli quanto in crisi fossi e come quindi risultassi inadatto a ricoprire le responsabilità che mi avevano affidato.  Finì male anche per lui. Ma questa è un’altra storia.

Il mio collega era un invidioso cattivo, per dirla fra noi, uno stronzo. Lo pensavo allora e sinceramente continuo a pensarla così. Sono passati tanti anni. Non lo vedo da molto. Ma secondo me è rimasto stronzo. Perché? Perché gli invidiosi cattivi sono quasi sempre così. Stronzi.

Persone che sono un ostacolo alla cooperazione e ai passi avanti di tutti. I loro inclusi!

Ma sono stronzi perché invidiosi o perché cattivi?

Quando lavoravo in Germania c’era un termine che spiegava bene la situazione. Dicevano “Schadenfreude” convinti che la lingua di Goethe, che rende facile la creazione di neologismi, collegando parole, fosse infinitamente più tecnica e utile della lingua di Dante.

(La peggiore parola composta che ho incontrato è “Kraftfahrzeugstellplatzverordnung” che significa letteralmente: “regolamento di spazio di collocamento di roba che va con la forza” e io da italiano “Fremdarbeiter “ovvero lavoratore ospite, traducevo come “regolamento per i garage”)

Comunque, in questo caso funziona e con questo termine descrivono quel tipo di persone che provano la felicità che deriva dalla sfortuna degli altri, soprattutto se lavorano con te. Nell’ambiente aziendale in cui lavoravo non mancava affatto questa “Schadenfreude”, aggravata dal fatto che, anche all’estero, esiste la stessa perversa dinamica che riguarda il fattore “prossimità”.

È il fattore “prossimità” che nutre l’invidia.

Contesto e prossimità

C’è invidia e invidia, quindi, e c’è contesto e contesto. Quanti più gradi di separazione intercorrono tra te e il “fortunato”, tanto meno il sentimento è potente. Diversamente subentra un’invidia forte, fortissima, stronza e cattiva. È una teoria che ho battezzato “Effetto cognato”.

È molto più difficile accettare che tuo cognato sia capace di avere un lavoro più appagante del tuo che non che Gianluca Vacchi, in una villa fenomenale in riva al mare, venga pagato per filmarsi in costume da bagno, mentre balla “Despacito” con modelle spaziali che lo accarezzano sensuali.

Per quanto on line i tanti Vacchi tentino, con una finta e fastidiosa ingenuità, di piantare un bastone tra le costole della nostra autostima, il problema maggiore ce lo crea invece la fortuna lavorativa del compagno di banco delle elementari, la serenità del vicino di casa o di scrivania, il successo del fratello, e la cognata sempre in forma nonostante gli anni.

Su questa personale teoria dell’“Effetto cognato” sembra io sia supportato persino dalla scienza ed empiricamente anche dalle dinamiche sui social. Le persone sono ossessionate dall’aggiornarsi sulla situazione altrui. Inoltre, visto che i social ti propongono con maggior frequenza le persone che segui di più, succede che più segui e più ti tocca seguire. Alla fine sai tutto, ma proprio tutto, della vita social di quelli che hai deciso di seguire. Solo che reagisci in due modi diversi:

  1. Se la Ferragni è felice perché Fedez le ha regalato, giusto per uscire una sera, la Chanel 2.55, che costa come tre mesi del tuo stipendio, sei sereno e la tua vita scorre lo stesso tranquilla tra gli avvisi della rata del mutuo, la macchina sempre in riserva e la raccolta punti della Coop per portarti a casa una fenomenale terrina di plastica celeste.

(Dubito che Fedez le compri la borsa. Più probabile che la paghino o gliela regalino per sfoggiarla. Ma sono uno degli ultimi attempati dark romantici).

  1. Se tuo cognato si fotografa appagato, mentre fa festa con tutta la famiglia, in un bed&breakfast in Trentino, tra prati, birre e bambini e scrive con poca fantasia: “E poi ti ritrovi con la tua famiglia in montagna e scopri che la felicità e tutta lì” accompagnata dagli hashtag : #family #truelove #felicità, tu che magari non hai tutta la coscienza a posto quanto a relazioni familiari, ti torci le budella, ingrandisci la foto per vedere di cogliere qualche indizio che ti racconti che magari è tutta una finta e che per certo lui tanto bene non sta e, si sa, i social sono tutta una sceneggiata.

Tre tipi di Invidia

  1. Sei un invidioso cattivo se speri che tuo cognato divorzi.
  2. Sei un invidioso benigno ed emulativo se desideri una situazione idilliaca come la sua, senza che lui si ritrovi solo.
  3. Sei un invidioso confuso se speri di godertela anche tu ma, se proprio non succede, almeno che patisca anche lui.

Il lavoro da svolgere è:

  1. sulla cattiveria e sul senso di inadeguatezza rispetto al prossimo e non sul sentimento dell’invidia che come un campanello suona per farci sentire che si può avere di meglio o essere meglio.
  2. Sulla distillazione approfondita e sulla consapevolezza se ciò a cui aspiriamo è davvero bene per noi o piuttosto solo un miraggio creato da una volontà impigrita, che preferisce modelli altri piuttosto che propri.
  3. Decidere come la pensiamo circa la regola aurea: “ama il tuo prossimo come te stesso” che nella cultura cristiana è raccontata in Matteo 22:34-40 ma appare in quasi tutte le religioni ed i pensieri spirituali di qualsiasi epoca e parte del mondo.

 

Il focus sulle cose, le situazioni o sulle persone

Se l’invidia si focalizza sulle persone, la situazione è ottima per la genesi della cattiveria attraverso il desiderio di danneggiare il prossimo. L’invidia ha in questo caso un nome, un cognome ed una faccia. Scomparsa la faccia o ridotto il nome in cenere, scompare anche il termine di paragone. Non desideravi nulla. Eri solo terrorizzato di fare i conti con una versione reale del tuo miglior te.

  • Potevi essere di più, qualcuno te lo dimostrava.
  • Potevi dare un nuovo significato alla tua identità ed esistenza ma hai vacillato di fronte alle difficoltà che provare ad essere migliori se stessi comporta.

Parte allora il sistema difensivo di “disintegrazione della minaccia”, a qualunque costo. L’Homer Simpson che c’è in te si trasforma in un Clint Eastwood assetato di vendetta che vuole solo che il termine di paragone esploda in una miriade di frammenti microscopici.

Se l’invidia prende lo spunto dalle persone, ciò che sottende è un sentimento di carente autostima, di non valere abbastanza. La cattiveria è allora un sottoprodotto altamente probabile.

Se poi l’invidia si mescola con il risentimento, che deriva dalla sensazione vera o presunta di essere stato trattato ingiustamente da qualcuno, allora la maligna aspirazione a vedere torcersi nel dolore il soggetto che invidiamo è certa. Allora la cattiveria è garantita.

Quando l’invidia è invece rivolta a cose, competenze, capacità e situazioni allora non necessariamente c’è qualcuno da boicottare e potrebbe rivelarsi un sentimento buono. Cosa ne dite ad esempio di questa lista?

  • Invidio la cultura che quella persona esprime.
  • Invidio la saggezza di quel professore di filosofia.
  • Invidio la maestria con cui suona quella musicista.
  • Invidio quella casa ben arredata e le feste che fanno in giardino d’estate.
  • Invidio le scarpe di Balenciaga che ha addosso quella signora e lo stile con il quale le sfoggia.
  • Invidio il fisico di Cristiano Ronaldo e l’ambiente in cui lavora.
  • Invidio il piglio con cui Trump vuole costruire il muro per tenere a casa loro i messicani.
  • Invidio la capacità di Gino Strada di portare avanti le sue battaglie e la gente che frequenta.
  • Invidio la competenza con cui Cardi B promuove il sesso di gruppo, la droga e sbatte in faccia i suoi soldi al mondo nelle sue canzoni.

Fa bene o fa male? Immagino che ognuno avrà qualcosa da dire e una sua interpretazione. Ma rimane che:

  1. Se l’obiettivo è chiaro, ed è vero e sentito, metabolizzato, allora l’invidia è un trampolino, e trovare qualcuno che incarni fisicamente la prova della possibilità di raggiungerlo è una salvezza.
  2. Se l’obiettivo è nebbioso e ti racconti storie o, peggio, te le fai raccontare, l’invidia è una trappola mortale. Fatta di frustrazione e delusioni.

 

In tutti e due i casi patisci, perché altri sì e tu no. Ma nel primo caso il termine di paragone svanisce di fronte al focus su ciò che c’è da fare. Nel secondo caso invece il focus sul da farsi non nasce mai, disgregato dalla attenzione su ciò che la persona di riferimento possiede, è ed esprime e pressato dal diktat delle forze sociali.

Pressioni sociali che ci impongono un modello che spesso non è ecologico e coerente con la nostra struttura interna. Forse allora dovremmo dire a Cesare Cremonini che ci sono anche quelli che vogliono essere Robin ma non lo sanno oppure se ne dimenticano facilmente se qualcuno gli dice che essere Batman è meglio.

Controllo, destino e invidia

Detto questo, se vogliamo parlare di invidia e cose concrete dobbiamo partire da qui: credi nell’ineluttabilità del destino?

Credi che le cose possano cambiare o no? E da cosa dipende? Da chi dipende?

Mi spiace che questi ragionamenti possano sembrare noiosi o da anziani, ma credo sia impossibile fare a meno di toccarli. Ne avevo scritto in “Nessuno mi capisce” e in “Non è mai questione di culo”, ma anche in quasi ogni libro che ho pubblicato in questi anni.

Bisogna mettersi davanti a uno specchio e guardare la propria storia. Poi chiedersi quale sarà il prossimo capitolo e chi lo scriverà?

Perché alla fine tutte le decisioni che prenderemo o non prenderemo dipenderanno da questo, più che dal moralismo e dalla filosofia pop che possiamo spargere in giro. Come con il ricorsivo ragionamento sul futuro e sulla pianificazione. Tutti dicono che sia così difficile e velleitario fare previsioni da rendere inutile gli sforzi. Non è vero che sia inutile, è vero che è difficile.

  • È vero che le cose possono non andare come si era pianificato.
  • È vero che a volte si trovano dove non si stava cercando e a volte il caso ti dà una mano. Ma non è il caso che governa il mondo.
  • E, anche se lo fosse, basta fare attenzione all’intimo, insopprimibile richiamo che spinge a ipotizzare futuri e a concretizzarli, fin da bambini.

Se riesci a cogliere questo istinto, allora la domanda successiva è: “Cosa ci fai con l’invidia?”

Ecco se non credete in toto al destino allora l’invidia serve. Serve se è emulativa e benigna.

Quella che serve a migliorare la propria situazione e che non prevede la distruzione dell’invidiato è davvero un sentimento appropriato.

Peccato capitale o meno. A mio figlio augurerei di essere invidioso.

Delle cose giuste e nel modo giusto.

In questo caso il laico giusto è il rispetto della regola aurea formulata in modo positivo:

“Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.

Invidia le realizzazioni. Non le persone, perché questo porta a dolori ancora più grandi di quelli che prova l’invidioso emulativo.

Se sei capace di sviluppare questo tipo di invidia penso che le cose ti andranno ragionevolmente bene.

Rimane solo da capire cosa e chi invidiare.

Invidiare i soldi è di per sé privo di un significato antropologico ed evolutivo. Non si progredisce sbavando per le cose in sé ma piuttosto per come sono state ottenute. Molto meglio quindi invidiare la capacità di fare i miliardi o la competenza di mandare un razzo su Marte o di curare il cancro.

E dunque, ricordando che non è mai questione di culo, invidiare la costanza, la disciplina, la capacità di individuare e nutrire il proprio talento.

Prima ho parlato di un collega stronzo, ma anche io sono stato un tipo invidioso. Del primo e del secondo tipo. Un invidioso cattivo ed un invidioso benigno ed emulativo. Del primo tipo, quando ero convinto che le cose dovessero andarmi sempre lisce perché mi spettava di diritto. Del secondo tipo, quello emulativo e benigno, che è quello di cui mi reputo orgogliosamente parte ancora oggi e che tento di nutrire.

Invidio emulativamente e benignamente, il mio capo, ad esempio, nel senso che ogni giorno cerco di diventare altrettanto capace e capire come faccia a essere sempre pieno di entusiasmo anche quando ha già raggiunto tanto. E non desidero che lui sia infelice, anzi, mi auguro che sia il più felice possibile per fungere ancora più da faro.

Ma non tollero l’idea di non riuscire ad esserlo io e di dovermi accontentarmi e non provarci.

Per cui: vogliamo ancora dire che gli invidiosi sono tutti stronzi? Possiamo farlo, ma peccheremmo di grossolanità. Invidiare serve. Ma serve farlo bene.

Quel libro sulla concretezza che non legge nessuno

Ho letto centinaia di libri e vedo che ogni giorno se ne sfornano a migliaia, forse milioni. Ma quello che penso manchi a molti che presuppongono di potere dare direzioni ed interpretazioni è una certa onestà intellettuale. L’onestà di dire “ehi questo che ti dico è marketing, la vita è anche tanto di più e io ne so fino a lì, come te. Fai attenzione e usa solo quello che ti serve davvero di quello che ti dico”.

Ecco, a me interessa ciò che succede nella vita reale. Le persone che mi scrivono, che mi leggono, quelle con le quali parlo, io stesso, siamo interessati ai capitoli che parlano di cuore e pancia, di animo e lacrime, di piccoli momenti di felicità, di immersioni di serenità ma sapendo che intorno ci saranno tanto sudore, sangue e merda.

Non parlo agli asceti e nemmeno alle rock-star.

Parlo a gente come me. Sempre in bilico tra sensi di colpa e deliri di onnipotenza, immersi in un crepuscolo tra umanità e mercato da cui tentano di uscire con dignità e senza farsi odiare. Anzi, facendosi amare, se possibile.

E dunque è poco utile dividere bianco e nero o parlare per aforismi e ideali.

Parliamo di cose concrete? Se sei invidioso in modo giusto è meglio. E in alcuni casi non esserlo diventa una vera tragedia.

Pensa obiettivamente a cosa hai oggi, poco o tanto che sia.

Se non sentissi questo sordo dolore che ti fa sentire inadeguato e inferiore, faresti fatica a fare carriera.

Forse non guideresti mai quella automobile se non sentissi montarti la rabbia quando sorridi tirato al tuo capo, che magari è un inetto o magari no, che la guida.

Se mio figlio si fiderà di me gli dirò “Rifletti. Ragiona. Scarta e scegli bene. E sii invidioso a volte”. Ti prego.

“Sii benignamente invidioso di come fa chi fa una vita come davvero la vorresti tu”.

“Arrabbiati perché non sei ancora a quel punto e datti da fare”.

L’invidia sarà anche un peccato capitale ma aiuta a farti muovere, per costruire dei trampoli o dei meccanismi per alzarti.

Cambiare però non serve se non si capisce il gioco ed il contesto.

La vita è a volte un campo di gioco, a volte una sagra di paese.

A volte devi sgomitare, a volte stare in coda e lasciare passare.

Il mercato libero non è la vita ma un costrutto sociale, che premia chi fa meglio e di più e punisce chi molla.

E il mondo che viviamo lo ricompensa e castiga in modo molto più estremo di quanto non facesse la vita nei boschi di Henry David Thoreau.

Meglio invidiosi (buoni) che in balia del caso

Se non si prendono in mano le redini del proprio sentire, si lascia campo libero ai dirottatori del destino. Gente né buona né cattiva. Ma gente a cui non interessa davvero come dormi la notte e come te ne andrai via da qui.

È un pessimo affare lasciare che la pubblicità e i direttori marketing e comunicazione ti indichino chi o cosa invidiare o emulare. L’invidia serve se decidi tu cosa vale la pena invidiare. L’invidia serve se decidi di lasciarla sempre più in basso di te, in modo che siano le gocce del tuo sudore a lavarla via e non le sue colature a inquinarti.

Non sei sbagliato se invidi, tutto sommato sono convinto ci sia molto di buono. Sbagli se la lasci guidare. Lei la strada verso la tua versione migliore non la conosce. Sbagli se lasci che sia il mondo a decidere cosa devi invidiare.

È quasi sempre una pessima cosa lasciare maestri, genitori, professori, social, direttori artistici, imprenditori, registi, politici, preti, santoni convincerti su chi dovresti essere.

Non ne sanno nulla del tuo futuro. Conoscono solo il loro passato.

Con serenità, ringrazia e saluta. Ma vai avanti, decidi e cresci.

Per loro sei un pezzettino dei big data, una rotella nel meccanismo e non ci saranno quando dovrai ingoiare i tuoi sei milligrammi al giorno di XANAX a rilascio prolungato.

L’invidia non è il problema. La cattiveria lo è. Condividi il Tweet

E la cattiveria è lo strumento che usiamo quando cerchiamo di trovare scorciatoie alla responsabilità di dare un significato originale alla nostra identità, lasciandoci colmi di rancore e mai soddisfatti.

L’invidia benigna ed emulativa funziona meglio. Il più delle volte ti aiuta a essere meglio di prima. E anche quando non andasse bene, ti lascia con il buon sapore in bocca, il sapore di averci provato.

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