L’Enciclopedia “Conoscere”.

In Approfondimenti, La Grande differenza
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L’ enciclopedia “Conoscere” arrivava una volta al mese.

Mia madre me l’aveva comprata a rate durante una di quelle presentazioni a cui la scuola elementare invitava i genitori con un ciclostilato.
Tutti quelli che potevano alle 17,30 uscivano dalle fabbriche e arrivavano al cinema parrocchiale, dove un venditore scaltro, che parlava italiano, vestito bene, chiedeva a tutte mamme operaie se avrebbero voluto per i loro figli e le loro figlie una vita come la loro.
E loro, tutti ancora sporchi di vernice e argilla, dicevano più dentro che fuori, “No, no, per mio figlio vorrei una vita meno dura, meno sporca”, meno “fuori un pezzo, avanti un altro”.
“Allora signora, deve garantirgli una educazione, serve una enciclopedia” rispondeva il piazzista.
Libri che al tempo avevano solo i figli dei medici, o dei notai o degli avvocati.
Agli altri figli si immaginava non servissero.
Avrebbero fatto il lavoro di artigiani ed operai, come chi li precedeva e li aveva messi al mondo.
Leggevo il volume che arrivava una volta al mese, fatto di figure disegnate, niente foto, e testi didascalici e sempre patriottici che descriveva un mondo pieno di certezze …in Sardegna si vive di pastorizia e a Larderello ci sono i soffioni boraciferi.
Aspettavo il postino.
Scartavo il pacchetto e correvo a nascondermi per ore in una soffitta di un vecchio capanno adibito a ripostiglio.
Tutti gli argomenti erano collegati bene in quei volumi, in ordine, precisi e puntuali.
Quella generazione non ha avuto la globalizzazione come problema, ma nemmeno come opportunità.
Quella generazione si è avviata senza mappe adeguate in un mondo sconosciuto .
La mappa era “Conoscere”.
Tutto qui.
Eravamo selvaggi.
Eravamo uniti da un senso di essere quasi tutti in difetto di conoscenza.
Non potevamo essere presuntuosi. Impossibile.
Troppo poco quello che sapevamo.
Mi sembra proprio di essere Nino, quello della “Leva calcistica del ‘68”, anche se sono del ’64, e il mondo da dove arrivo non c’è proprio più.
“E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai” cantava De Gregori, “di giocatori tristi che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro al bar e sono innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai”. Già, quanti ne ho veduti e ho sempre timore di essere io e di non accorgermene. Quell’enciclopedia ti spingeva a non aver paura di tirare un calcio di rigore che non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”.
Ecco allora che, risalendo dalle profondità di un tempo che non c’è più, porto con me quel sapore di genuina possibilità, di fantasia, altruismo e coraggio che sentivo quando sfogliavo la mia enciclopedia.
Che mi ha spinto a forza di leggende romantiche e parole sentimentali a tirarli tutti i calci di rigore che mi sono capitati.
Giusti e sbagliati.


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