Le cose non parlano

In Graffi sull'anima
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Dove è la prolunga? Eppure era lì, ne sono certo. Cerco tra il disordine atomico dei cassetti e delle scansie disturbando ragni appisolati. Dov’è? Mi serve, più la cerco, meno la trovo.
Penso a tutti i posti, dove potrei averla abbandonata, e nel frattempo filosofeggio. Perché non esiste una funzione “cerca” nella vita?

Come su Google. Risolverebbe una marea di problemi, compresa la mia sbadataggine.
Dove sei prolunga?
Mi servi ora.
Né prima, né dopo. Ora.
Sposto pacchi di giornali che non vedranno mai un lettore e soprammobili che, sfortunatamente per loro, anziché sopra, stanno dentro i mobili.
E intanto penso.
Prolunga, perché se ti chiamo, non ti fai riconoscere e ritrovare?
Non sarebbe meraviglioso?
Tu chiami la cosa che non trovi, nella confusione del mondo, e lei simpaticamente ti dice “Sono qui”.
Ma niente da fare.
Silenzio assoluto, solo le tempie che battono e che quando sono nervoso, sembrano tamburi che battono il tempo, che perdo a cercare inutilmente.
E ribalto scatole che promettono bucati bianchi e vecchie camicie dai colli demodé ancora sgargianti e nonostante gli anni.
E intanto, mi viene in mente cosa mi ha detto ieri il ragazzo nigeriano, che incontro quasi ogni sabato fuori dal droghiere, con il suo carico di calzini in poliestere e merce stramba che non serve a nulla, se non per mettere lui nella condizione di avere dignità mentre domanda un aiuto, e me, a malincuore, in quella di trasformare un atto di solidarietà in un uno scambio commerciale, che però evita il male interpretabile atto della elemosina.
Dopo i soliti convenevoli e strette di mano, il passaggio di
qualche pacco di fazzoletti di carta contro qualche euro, mi chiede se ho
qualche vestito vecchio, scarpe in disuso, qualsiasi misura, qualsiasi foggia, qualsiasi colore.
Ne ho a pacchi di roba vecchia.
Intasa la mia vita, la roba vecchia.
Mi dimentico, persino, della roba vecchia.
Sto ancora cercando questa prolunga, forse è lì, dietro quella bicicletta che non uso mai.
No, era la pompa che serve a gonfiare le ruote della bicicletta che non uso mai.
Ormai in questa stanza sembra sia scoppiata una bomba.
Quello che era qui adesso è li e viceversa. Un cubo di Rubik personale, irrisolvibile.
Sogno che la prolunga parli.
“Ehi, mi avevi lasciata come un scarpa vecchia, tra il niente dei tuoi pensieri e ora sono contenta di poterti essere utile di nuovo.
Sì, un po’ mi spiace che tu ti ricordi di me solo quando ti servo, ma fa niente, è destino, dai riprendimi, che non vedo l’ora di darti una mano”.
Ma non funziona.
Non è così che va il mondo.
Il mondo va che le cose non parlano.
Anche quando ti servono molto.
Invece parla il ragazzo nigeriano.
Una conversazione, un po’ futile e banale, in un inglese naif e che funziona da esperanto, ma che salva entrambi dal fare alla nostraumanità la fine della prolunga.
E mi dice, prima di accomiatarsi, una frase, che in questa mattina di ricerca infruttuosa, mi torna in mente.
“Thank you for talking to me because, I  know,  I’m not so important”.
La prolunga non si trova.
Le cose non parlano.
E ci sta. Lo sapevo. Dovevo fare attenzione. Riporla con
cura. Magari scrivere dove l’avevo messa sapendo che la mia testa spesso fa cilecca.
La prolunga non la trovo ed è normale che non mi risponda.
Le cose non parlano. Se le dimentichiamo, è affare nostro.
Solo nostro.
Per loro è lo stesso, per loro non cambia nulla.
Le cose, serene sul loro scaffale, rimangono a fare la guardia al buco della nostra disattenzione.
Ma le persone no.
Quelle parlano.
E dicono.
Dicono grazie, perché spendi del tempo a parlare loro, che, lo sanno, loro non sono importanti.
Quindi grazie.
Io cerco un prolunga e trovo il mio prossimo.
Che mi parla, proprio come farebbe la prolunga, se potesse.
E mi dice che, nonostante il mio continuo disinteresse, lui è lì, ma capisce perché lo ignoro.
Perché è colpa sua dice.
Perché lui non è poi così importante.
E quindi accetta che io passi, incurante del suo disagio da laureato straniero che vende foulard sintetici, per conto di qualche malfattore.
Ormai è per lui normale, sbiadire negli antri dei portoni, diventare invisibile mentre esco dal droghiere, dove ho acquistato una bottiglia di amarone e del formaggio di fossa d.o.p.
E tenta di essermi utile con cose inutili, perché non c’è mica tanto altro da inventare se il tuo interlocutore, non ti ascolta.
Se non gli sei utile né prima, né dopo, l’unica via è tentare di essergli utile nei rari momenti in cui la tua vita si incrocia, per errore, con la sua, al bar, davanti al parcheggio, all’uscita del droghiere.
Dove sei?
Dove ti ho cacciata prolunga?
Tra i mille angoli bui della mia vita distratta, ti ho dimenticata, ed ora che mi servi non ti trovo.
Forse lì, in quell’anfratto in alto, dietro la stufetta che ho acceso nel ’95 per scaldare un bagno troppo freddo per i miei standard.
E sposto l’attrezzo, e dietro, come una nera serpe sonnacchiosa, mi sbircia con un paio d’occhi elettrici la prolunga.
Che disegna con le sue spire un sorriso malizioso, come se lo aspettasse, che prima o poi sarei tornato.
Ma la consegna delle cose è non parlare.
“Sei tu che te ne devi accorgere tesoro mio” sembra che dica.
Così va la vita.
Nessuno che ti tira per la manica della giacca, come facevo con il mio babbo, quando da bambino, lo disturbavo dalle sue conversazioni con gli amici.
Nessuno che ti manda un pro-memoria.
Nessuno che ti tiene un’agenda.
“E’ tutta roba tua amore, nel bene e nel male”.
Sembra mi sussurri dal suo angolino polveroso.
La estraggo con cura, conscio che l’errore è mio.
Si è una prolunga, però ora mi serve, ed io le dedico attenzione solo per questo motivo.
Lo so, le prolunghe non sono famose per nutrire sentimenti di riconoscenza o di sofferenza verso i loro proprietari, ma nemmeno verso qualcun altro.
Ma a me, questa mattina, questa prolunga muta ha fatto rammentare che sono sordo anche quando parla per mezzo di altri.
Parla con la voce di uomini e donne a volte bravi a volte no, a volte magri a volte grassi, a volte buoni a volte meno, a volte uguali a volte differenti.
Una specie di delega, per dire che: “Ok, va bene così Sebastiano, va bene, anche se ti accorgi di me solo quando ti servo, magari la prossima volta almeno ricordati dove mi hai messo”.
E questa mattina invece, io penso che no.
Non va per niente bene.
Questa auto-assoluzione non va bene per niente.
Non mi ricordo dove metto le cose.
Non mi ricordo dove metto il mio prossimo.
Non mi ricordo dove ho messo la mia umanità.
Non mi ricordo di dire al mio amico nigeriano che non è vero che lui non è importante.
Non mi ricordo di dirmi che io valgo, tanto quanto riesco a fare valere il mio prossimo.
A prescindere da quanti calzini in poliestere mi ritornerà lui, come corrispettivo.
No, le cose non parlano, e non mi biasimano.
Ma gli uomini e le donne che incontro sì.
Se le intendo.
Anche quando si addossano la colpa della loro scomparsa ai miei occhi dicendo che non sono importanti.
E a prescindere da cosa possono fare loro per se stessi, io sono chiamato a dare ascolto e dirgli che sono importanti per me, e non potrei fare a meno di loro, tanto più quanto credono di non contare.
Che non ho mica tutti questi meriti per essere quello dentro alla bottega del droghiere, anziché quello che aspetta fuori con il borsone.
E che se anche li avessi, questi meriti, il senso è quello di dividere il risultato.
Perché se sei bravo, sei anche bravo a capire che il fine di tutta la tua bravura è fare stare un po’ meglio quello che ti si accosta con speranza.
Non è normale dedurre tutto questo dal fatto che stamattina.
cercavo una prolunga, ma forse non è poi più strano e insensato del lasciare che una umanità sofferente scompaia tra le ante chiuse della mia insensibilità.
Come fosse una prolunga abbandonata.

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