Lavoro ibrido e futuro incerto: il compito dei leader adesso è evitare che le persone siano costrette a provare a indovinare

In La Grande differenza
Scorri

Oltre cento anni fa, Sir Ernest Shackleton, a bordo della nave Endurance, si preparava ad essere il primo uomo ad attraversare l’Antartide.

Famoso l’annuncio per reclutare i membri dell’equipaggio che prometteva paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità oltre che incolumità e ritorno incerti.

Quasi subito fu chiaro che non ci sarebbe mai riuscito. La nave rimase infatti intrappolata in enormi blocchi di ghiaccio fino a schiacciarla.

Fu in questa occasione che Shackleton impartì una lezione che può venire ancora utile: quando le circostanze cambiano anche i piani devono cambiare e qualcuno deve avere e comunicare la direzione.

Disse ai suoi uomini: “la nave è andata, adesso torneremo a casa”. Da quel momento pretese che tutti continuassero a fare ugualmente il proprio lavoro, mantenere i turni e i propri doveri, si facessero compagnia la sera.

Attraverso la routine, l’ordine e l’interazione, Shackleton riuscì a contrastare la paura che subentra quando i viaggi non vanno come previsto. Dopo mesi e grandi difficoltà Shackleton riuscì a partire con pochi uomini a bordo di una lancia e raggiungere South George Island e chiedere aiuto; tutti i membri dell’equipaggio furono salvati. Quasi un anno dopo.

In seguito, Sir Raymond Edward Priestley, geologo ed esploratore inglese, arruolato nella spedizione di Shackleton, disse:

“Per la scoperta scientifica dammi Scott; per la velocità e l’efficienza del viaggio, datemi Amundsen; ma quando il disastro colpisce e la speranza è sparita, mettiti in ginocchio e prega per Shackleton.”

Racconto spesso questa storia come esempio di resilienza ma anche e soprattutto di leadership in momenti di crisi; doti quanto mai attuali. 

C’è bisogno di coraggio, di più Shackleton. 

Quando le circostanze cambiano anche i piani devono cambiare e qualcuno deve avere e comunicare la direzione.

Incertezza e smarrimento: The Great exhaustion

“Possiamo fare molto per il morale di chi ci circonda (e di conseguenza delle persone che circondano questi ultimi) semplicemente eliminando dalla loro vita quotidiana il compito di indovinare quello che stanno facendo e in che direzione stanno andando”. 

Sono parole di Robert Iger, storico Ceo di Walt Disney. Un pensiero espresso qualche anno fa ma ancora attuale, che anzi racconta alla perfezione la sfida che attende manager e leader, nonché la situazione difficile di milioni e milioni di persone. 

Il focus trimestrale di McKinsey inquadra bene questo aspetto, mettendo in luce quella che si può definire “The Great exhaustion”: le persone nutrono sempre più crescenti paure. Per il presente, per il futuro. 

Speranze, paure, ma soprattutto incertezza

La pandemia, secondo le indagini, ha creato schiere di lavoratori svuotati. Persone angosciate, spaventate, preoccupate dalla fine dei decreti blocca licenziamenti e da mercati schizofrenici e da una società che sta assumendo nuove forme ancora indefinite con classi e tensioni sociali in ebollizione.

Dai sondaggi condotti: oltre il 49% degli intervistati afferma di avere sperimentato un alto livello di disagio, sentirsi esausto; e una percentuale simile, quasi la metà, condivide paure in termini di peggioramento dell’equilibrio vita-lavoro, dei rapporti con i colleghi, possibilità di crescita, dovuti all’avanzare del remote working e di un ufficio che inizia sempre più a de-materializzarsi. 

No alt text provided for this image

Il dato più interessante però è quello legato all’incertezza, o, come suggerisce McKinsey al “sound of silence”, cioè a una mancata chiarezza strategica e comunicativa circa il futuro da parte del management. Un silenzio drammatico. 

No alt text provided for this image

Come se il comandante dell’aeroplano si fosse chiuso nel mutismo proprio durante una brusca turbolenza e ci lascia nel dubbio che ci sia ancora qualcuno al comando e se ne usciremo indenni. 

Dove stiamo andando? Dove andremo? 

Non sono certo di potere prendere per buoni numeri che provengono dal mercato Nordamericano ed applicarli tout court al mercato italiano ma uno spunto di riflessione penso si possa fare anche contestualizzato al nostro Paese. 

Come manager, leader, imprenditori, siamo chiamati a dare risposte. 

Produttività e benessere delle persone

Nei primi mesi della pandemia la maggior parte delle aziende ha per forza di cose dovuto ricorrere a modalità di lavoro da remoto. È stato un cambiamento epocale in cui molti hanno tuttavia registrato fattori positivi in termini di velocità, produttività, riduzione dei costi. Anche in Italia un giorno sì e l’altro pure sono apparsi articoli e inchieste a esaltare la nuova direzione del lavoro. Un lavoro dematerializzato ma in sintonia con questo mondo digitale. Dove, per le aziende, sarebbe stato possibile abbandonare i costi fissi degli uffici, pratiche obsolete di lavoro, scegliere i migliori talenti prescindendo dalla ubicazione. 

Oggi però, mentre la pandemia sembra iniziare ad attenuarsi, emerge anche l’altra faccia della medaglia. È tutto rose e fiori? 

Certamente no. 

La produttività non è qualcosa di matematico come a volte si tende a raccontare ma contiene sempre quella chimica frutto delle interazioni e della specificità umana. 

Le persone, spesso non abituate a lavorare in contesti dematerializzati, iniziano ad avvertire solitudine, mancanza di legami, di interazione, di conforto, supporto e anche leggerezza che tradizionalmente si otteneva in ufficio, banalmente anche delle risate e dei confronti di fronte alla macchinetta del caffè.

In un mondo del lavoro ibrido emergono poi i problemi di diversa velocità: chi lavora da casa e chi in ufficio spesso hanno ritmi diversi. Non dimentichiamo poi il fattore generazionale: se sino a prima della pandemia, ricordavamo ogni giorno che per la prima volta tre, quattro o addirittura cinque generazioni si trovano a lavorare insieme, cosa succede quando queste generazioni, con abitudini e attitudini ovviamente diverse e diversa predisposizione al digitale, devono interfacciarsi in un modello ibrido? 

Cultura aziendale in un mondo ibrido

La grande sfida, anche questo un fattore che incide sulla produttività, è sicuramente quello relativo alla cultura aziendale. Cosa succede quando le persone non condividono più spazi e rituali? Quando le persone lavorano insieme senza magari mai essersi incontrate di persona? 

È un tema attuale e spinoso su cui tutti siamo chiamati a riflettere e provare a dare risposta. 

Nel frattempo, specie sulle colonne internazionali di approfondimento manageriale, tornano in auge le famose parole pronunciate da Melissa Mayer, allora Ceo di Yahoo, che concluse l’esperimento di lavoro a distanza avviato nel 2013, osservando che la società doveva tornare a essere “una solo Yahoo!”

Vicinanza, gentilezza ed empatia

Va fatta poi una riflessione su cosa significhi essere vicini in questo momento. A distanza e in un modello ibrido. 

Al crescere della complessità crescono le difficoltà delle persone. Difficoltà che non sono solo più legate strettamente al lavoro ma spaziano in campi molto personali come appunto la salute mentale, la serenità e sicurezza propria e dei familiari, la gestione ibrida non solo del lavoro ma anche di altre attività – pensiamo alla scuola per chi ha figli – che in un modo o nell’altro vanno a sovrapporsi con il lavoro, rendendo sempre più impercettibile la linea di demarcazione tra sfera privata e sfera lavorativa. 

Qui probabilmente, per guardare avanti, almeno noi italiani potremmo guardare indietro. A un gigante del pensiero come Adriano Olivetti per esempio. 

“Bellezza, amore, verità e giustizia”, vicinanza e umanità non possono essere ingredienti secondari in questo momento e nella transizione a uno nuovo. 

Il momento dei leader

Infine, tornando a quel silenzio inquietante, tocca dimostrare di essere davvero leader. 

Avere coraggio ed essere specifici sul futuro.

Se esiste un momento in cui l’ansia di chi sta sottocoperta a remare deve trovare un calmante è proprio questo.

Se mai c’è stato bisogno di qualche idea prospettica, di stabilità e saggezza equilibrio ma anche di coraggio e speranza è proprio ora. Alle porte di sfide che fanno tremare i polsi.

L’ambiguità e il silenzio se lasciati prosperare portano solo a soluzioni fatte da sé, buone solo per stuccare il presente, portano all’arte di arrangiarsi che non è mai basata sul lungo periodo ma solo sul parcheggio in terza fila che tanto il vigile non passa e se passerà si vedrà.

La fame di speranza e di futuro ha due menù da cui potere scegliere.

Quello individuale dove la fanno da padroni pulsioni personali che del prossimo di solito fanno a meno. 

Quello collettivo dove il bene comune trova spazio e dove l’ansia e l’angoscia trovano un significato di sacrificio a breve per un più grande bene futuro.

Se esiste un momento per dimostrare che quell’auto aziendale e quei benefit che vanno solo ai capi e alle cape sono meritati è proprio ora.

Ispirare, dare nuove regole per questo nuovo lavoro ibrido, spingere senza spaventare, spiegare e chiedere senza minacciare, condividere e creare nuove modalità di partecipare al lavoro e ai risultati sono un’occasione per dimostrare che questa storia della leadership non è solo un modo per riempire i libri, i podcast e i convegni.

Dare risposte. 

Perché non c’è nulla di peggio, per le persone e per i loro cari, che dover provare a indovinare quello che stanno facendo e in che direzione stanno andando. 

X

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi