Il diritto, il dovere e il potere di NON credere

In Approfondimenti, La Grande differenza
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Lunedì 17 settembre, anno 1787, venne ultimata la stesura della costituzione più antica della storia: Costituzione degli Stati Uniti d'America. Sarebbe entrata in vigore due anni dopo ma gli anni che intercorrono tra l’ideazione, la stesura e l’entrata in vigore sono un pezzo di storia del pensiero umano e politico senza precedenti. 

In particolare, c’è un fatto poco noto, che avrebbe potuto cambiare quella Costituzione e forse il corso dell’intera storia.

Thomas Jefferson futuro terzo presidente degli Stati Uniti sollevò una questione complessa: “La terra viene data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essa”, e continua: “le costituzioni e le leggi dei predecessori si estinguono naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate”.

Quello che intendeva Jefferson è che, già al momento della stesura della Costituzione, si sarebbe dovuto prevedere il tempo in cui questa avrebbe perso aderenza con i tempi e sarebbe stato dunque necessario aggiornarla.

Del principio di Jefferson si è interessato soprattutto Piergiorgio Odifreddi, brillante matematico e filosofo, che ne ha discusso in un saggio del 2018,  dal titolo “Un principio rivoluzionario. Thomas Jefferson calcolò dopo quanto tempo dovrebbe decadere una costituzione”. Debbo a lui, con il quale ho avuto il piacere di chiacchierare all’interno della mia community, questo stimolo e questa riflessione.

Una considerazione, che oltre a considerazioni politiche, che ci pone una domanda urgente: a chi dobbiamo credere? È giusto comportarci secondo le logiche e i principi di chi ci ha preceduto? Siano essi vivi o morti, la nostra vita da chi deve essere diretta? A chi dobbiamo credere?

Una prima risposta a questa domanda l’hanno data i nostri predecessori. L’intera storia dell’umanità risponde a questa domanda.

I nostri avi si sono ribellati allo status quo, invocando ed esercitando il DIRITTO DI NON CREDERE alle storie imperanti ed esplorando nuove strade.

Il destino di Galileo Galilei e il nostro

Galileo affermò che non fosse il sole a girare intorno la terra ma il contrario.

Lottò per il suo diritto di non credere e rischiò la vita per questo motivo.

Martin Luther King, eroe e paladino delle comunità afroamericane, “il redentore dalla faccia nera”, in prima linea affinché fosse abbattuto nella realtà americana degli anni Cinquanta e sessanta ogni sorta di pregiudizio etnico.

Trascorse la sua esistenza esercitando il diritto di non credere.

Se parlate con qualcuno delle generazioni  nate trent’anni prima dell’arrivo del web, quindi anche con me, ascolterete le loro storie che saranno caratterizzate da qualche lotta per esercitare il diritto di non credere.

In un certo senso siamo un po’ tutti figli (del principio) di Jefferson.

Oggi però siamo chiamati a una sfida diversa: passare dall’ottenere il diritto di non credere all’esercitarlo.

Dal diritto di non credere al dovere e potere di non credere.

Ventunesimo secolo: abbondanza, opportunità e responsabilità

Contrariamente alla sensazione catastrofica e drammatica che qualcuno ha mutuato paragonando la situazione attuale a ciò che dovrebbe essere in teoria anziché confrontarlo con il passato, questi ultimi anni sono stati molto più tranquilli, pacifici, liberi per noi umani di qualsiasi altra era.

Come ha fatto notare Bill Gates qualche tempo fa: 

“Nel 1990, oltre un terzo della popolazione mondiale viveva in condizioni di estrema povertà; oggi solo circa un decimo. Un secolo fa, era legale essere gay in circa 20 paesi; oggi è legale in oltre 100. Le donne stanno guadagnando potere politico e ora costituiscono più di un quinto dei membri dei parlamenti nazionali – e il mondo sta finalmente iniziando ad ascoltare quando le donne parlano di violenza sessuale. Più del 90% di tutti i bambini nel mondo frequenta la scuola elementare. È molto meno probabile che tu muoia sul posto di lavoro o in auto rispetto ai tuoi nonni. E così via.”

Certamente non tutto va per il verso giusto e migliore.

Individualmente affrontiamo problemi di sopravvivenza economica che per alcuni diventano tragedie senza paragoni.

Ma sicuramente il contesto è diverso da prima

È abbondante di risorse e soprattutto di informazioni e storie e questo cambia il paradigma, che si muove dal lottare per affermare nuove verità, non credendo a quelle poche dispensate dal potere, al dovere di non credere alle tantissime storie  in circolazione, storie fuorvianti che si pongono come trappole per la nostra realizzazione.

Prima eravamo nella fase in cui anche se vuoi non puoi e devi lottare per potere non credere.

Pensiamo a questa pandemia e alla qualifica di “cigno nero” che molti le assegnano.

Era davvero imprevedibile, caratteristica fondamentale secondo Taleb per essere definita un cigno nero?

Prima di rispondere leggiamo questo brano.

“La gente stava collassando e morendo ovunque. Gli ospedali erano pieni e allontanavano i pazienti, che offrivano enormi tangenti per entrare.

Le persone si evitavano a vicenda, allontanando la testa se dovevano parlare, isolandosi.

Gli eventi sportivi sono stati cancellati. Teatri chiusi. La stretta di mano fu resa illegale a Prescott, in Arizona, mentre Philadelphia si affrettò a creare altri sei obitori. Le famiglie hanno messo carta crespa sulle porte per segnalare una morte all’interno – ed era ovunque.”

È un passaggio de La Grande Influenza, il libro di John M. Barry che racconta l’influenza spagnola.

Quell’epidemia di influenza spagnola del 1918, uccise almeno 50 milioni di persone in tutto il mondo, e da allora è stata il punto di riferimento per le pandemie.

Per decenni – ha scritto l’altro ieri l’opinionista Nicholas Kristof, sulle pagine del New York Times, riportando proprio il passaggio del libro – gli esperti di salute pubblica hanno chiesto preparativi per un’ altra “grande” – eppure non sono mai stati fatti preparativi adeguati.

Senza tornare al 1918, sono passati diciassette anni dalla SARS, abbiamo avuto ebole, aviarie, suine, Nipah. Virus di tutti i tipi.

L’allarme era già suonato molte volte.

Come disse Mark Twain: Non sono le cose che non sai a metterti nei guai. È quello che dai per certo che invece non lo è.

Non sono le informazioni che ci mancano, sono le storie che ci raccontiamo ad essere deboli.

Dovemmo esercitare il nostro dovere a non credere a storie furbe, sexy, dolci, facili ma che ci lasceranno spiazzati e senza difese.

D’altronde siamo abilissimi a darci ragione a posteriori quando crediamo a storie che si rivelano sbagliate.

Lo psicologo Philip Tetlock ha studiato le attività di esperti politici ed economisti. Ha chiesto a vari specialisti di giudicare con quale probabilità alcuni eventi politici, economici e militari si sarebbero potuti verificare in uno specifico lasso di tempo (circa cinque anni). Coinvolgendo quasi trecento specialisti ottenne circa ventisettemila previsioni. Gli economisti rappresentavano circa un quarto del campione. Lo studio rivelò che i tassi di errore degli esperti erano molte volte superiori a quelli previsti e mise in luce il problema degli esperti: non c’erano differenze tra i risultati di laureati e dottorati; i professori con varie pubblicazioni non avevano alcun vantaggio rispetto ai giornalisti.

Ma il suo studio fece emergere un aspetto ancora più interessante: il meccanismo con cui i soggetti generavano spiegazioni a posteriori.

1)      Dire a sé stessi che pensavamo che il gioco fosse diverso.

Se sbagliamo o manchiamo la previsione di un evento, la storia più plausibile che possiamo raccontarci è che se avessimo avuto le giuste informazioni saremmo sicuramente stati in grado di prevedere un dato evento. Non è insomma colpa delle nostre capacità.

2)      Invocare l’evento isolato

Quello che è successo non rientrava nel sistema, non rientrava nell’ambito della scienza. Dato che non era prevedibile, non è colpa nostra. Si è trattato di un Cigno nero, e noi non siamo tenuti a prevedere i Cigni neri.

3)      La difesa dell’aver avuto quasi ragione

A posteriori, grazie a una revisione dei valori e a una struttura informativa, è facile pensare di esserci andati vicini.

Siamo sempre inclini a perdonarci. Se sopravviviamo almeno.

Il dovere e il potere di NON credere

In una società bombardata da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere.

La grande sfida del ventunesimo secolo sta innanzitutto nel sapere selezionare, filtrare, verificare e scegliere le storie che ci vengono proposte.

Più che l’intelligenza artificiale, la tecnologia intesa come automatizzazione, digitalizzazione, la più importante tecnologia della quale abbiamo bisogno è quella che  lo psicologo Barry Schwartz definisce “la tecnologia delle idee”.

La nostra natura umana viene perlopiù creata, piuttosto che scoperta.

Se crediamo che si diventi ricchi secondo un sistema meritocratico, saremo persone che si impegnano per eccellere, ogni giorno. Se crediamo che tutto sia scritto nel grande libro del destino ci comporteremo in base al principio del minimo sforzo perché non c’è molto da fare, se crediamo che nel mondo regni l’ingiustizia e che alcuni stiano approfittando di noi ci prepareremo alla rivoluzione e ci batteremo per i nostri diritti. Le nostre azioni prendono il via dalle storie in cui crediamo.

Attenzione, anche credere alla contro-informazione  al complottismo è in discussione qui.

È la vittoria della creduloneria più che dello scetticismo come si può pensare.

Chi crede a queste storie lo fa proprio perché, nonostante le informazioni a disposizione, preferisce percorrere strade più comode. Credere a ciò che viene proposto anziché esercitare il DIRITTO DI NON CREDERE.

Se INVECE pensiamo che ci siano cose che possiamo controllare e altre che non possiamo controllare, allora saremo più attenti, sereni e lungimiranti.

E così via per ogni altro aspetto delle nostre vite.

Come possiamo lavorare sulla nostra tecnologia delle idee?

Innanzitutto, liberando spazio. Buttando via tutte quelle storie che mi piace definire ludico-pornografiche.

Termine che mi viene in mente unendo due concetti che considero geniali nella loro semplicità ed efficacia.

Il primo, la fallacia ludica, è un concetto tratto ancora una volta da Nassim Taleb.

La fallacia ludica consiste nell’applicare al mondo, e alla previsione degli eventi, così come all’analisi che facciamo per decidere la nostra mossa nelle varie sfide della vita, concetti matematici e tipici dei giochi. I giochi però, pensiamo a quelli di un casinò per semplificare, sono guidati realmente da concetti matematici e si giocano in ambienti sterili: ovvero non subiscono l’influenza della componente umana e imprevedibile. Subiscono il caso ma non il caos e la cattiveria.

Una bella storia per comprendere tutto ciò è raccontata da Taleb e coinvolge paradossalmente un casinò.

Le perdite più ingenti subite o evitate per poco dal casinò – che coinvolse Taleb come esperto del rischio – non rientravano assolutamente nei loro modelli sofisticati di previsione e assicurazione.

“Nel primo caso il casinò perse circa cento milioni di dollari quando  il domatore Roy ( che con Siegfried era una delle più grandi attrazioni di Las Vegas) fu attaccato da Mantacore, una tigre allevata dall’artista, il quale la lasciava addirittura dormire nella sua camera da letto. Fino a quel momento nessuno avrebbe  mai immaginato che l’animale avrebbe potuto rivoltarsi contro il padrone. Nell’analisi degli scenari il casinò aveva addirittura considerato l’eventualità che la tigre si avventasse sul pubblico, ma nessuno pensò di chiedere un’assicurazione per l’evento che poi si verificò.

In un altro caso il danno arrivò per via del sequestro della figlia del proprietario del casinò, il quale per pagare il riscatto violò le leggi sul gioco d’azzardo mettendo mano ai fondi del casinò. In un altro caso per l’imperizia di un dipendente che doveva inviare i moduli fiscali relativi alle vincite avvenute e li nascose invece, per ragioni del tutto inspiegabili, all’interno di scatole che mise sotto la propria scrivania. Il che portò a una multa record.

Conclusione: un rapido calcolo mostra che il valore in dollari di tali Cigni neri, ossia dei casi che non rientravano nei modelli, supera quello dei rischi previsti con un rapporto di 1000 a 1. Il casinò spendeva centinaia di milioni di dollari in teoria dei giochi d’azzardo e sorveglianza ad alta tecnologia, ma i rischi più gravi furono causati da eventi che non rientravano nei modelli. I rischi non avevano niente a che fare con ciò che ci si poteva aspettare.”

Se ancora il concetto non fosse chiaro, Mark Spitznagel, un trader, collega di Taleb, ha proposto una spiegazione molto semplice ed efficace: “il combattimento competitivo organizzato allena l’atleta a concentrarsi sul gioco e, per non perdere la concentrazione, a ignorare la possibilità di ciò che non è specificatamente consentito dalle regole, come calci all’inguine, forbice a sorpresa, eccetera. A vincere la medaglia d’oro, quindi, potrebbero essere proprio i più vulnerabili nella vita reale. Allo stesso modo, capita di vedere persone con muscoli enormi che nell’ambiente artificiale della palestra danno nell’occhio, ma che sono incapaci di alzare una pietra.”

Per intenderci, la fallacia ludica, rimanendo sull’esempio, è affrontare una rissa in strada e proteggersi il volto ma non sotto la cintura perché il regolamento dei giochi di lotta sportivi lo vieta. Se mai ci fosse una rissa invece sappiamo che non esistono regole e che chiunque si aspetti un combattimento pulito è destinato quasi sicuramente ad avere la peggio.

Nelle nostre vite è uguale: pensare che gli eventi rispettino le probabilità o pensare che gli eventi brutti rispetteranno comunque un copione o non saranno così drammatici ci espone ancora di più alla vulnerabilità.

Pornografia

Di pornografia me ne ha parlato il professor Alf Rhen con il quale ho avuto il piacere di parlare di questo nostro mondo così complesso e mutevole. La sua idea è che, nel suo campo, l’innovazione, come in altri, il problema principale sia dato dalle storie che ci vengono raccontate. Storie, come dice lui, pornografiche: versioni per così dire ripulite dalla realtà.

“La pornografia mira a raccontare storie semplificate e, appunto, ripulite, sul sesso. Questo perché nel mondo reale il sesso può essere una cosa molto complessa e complicata. Nel mondo reale le persone hanno inibizioni ed emicranie, per non parlare di impegni lavorativi pressanti e figli di cui prendersi cura. Nella pornografia non c’è nulla di tutto questo. In quel mondo fittizio tutti sono belli e tutto è bello. In altre parole, la pornografia è straordinariamente e meravigliosamente irrealistica. Il problema si crea se cominciate a credere che la pornografia sia una vera rappresentazione della realtà, e si aggrava ulteriormente se vivete la vostra vita come se lo fosse.”

Spiegati i due concetti, ecco il senso di “verità ludico-pornografica”, tutte quelle storie che ci raccontano, che ci raccontiamo, alle quali scegliamo di credere che sono ripulite dalla imprevedibile incertezza che domina le nostre vite.

Molti di noi sono assuefatti alla idea che la realtà debba essere bella e asettica.

Questo porta  quasi sempre a del dolore.

Abbiamo il diritto di non credere, provare a interpretare la vita in modo autentico ed originale.

Abbiamo il potere di non credere, per creare percorsi alternativi, in linea più con noi che con quanto ci viene proposto da altri.

E abbiamo il dovere di non credere, perché noi e gli altri siamo molto più connessi di quanto si possa pensare. Salvare noi stessi e salvare gli altri, per certi versi, sono la stessa cosa.

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