Sono giorni difficili ed è prevedibile che anche quando l’emergenza sanitaria cesserà, ci troveremo a disagio, pieni di dubbi, di paure, di problemi. Ci aspetta un “lungo inverno” o una traversata nel deserto in cui ciascuno dovrà esprimere il massimo del proprio potenziale e distillare ogni energia. È plausibile che dovremo modificare un abituale comportamento iper-consumista. Ci sarà da risparmiare di più e comprare di meno ma tutto sommato potrebbe anche essere educativo.
Ci sono alcune “cose” però che continueremo a comprare compreremo e che pagavamo, paghiamo e pagheremo con una valuta speciale: la fiducia.
Sono le storie.
Storie buone o cattive, storie vere o false, anche sotto nomi edulcorati al sapore di esotico come “story”, “storytelling”, “recounting” o addirittura mimetizzati con termini solenni come “religione” o “natura” – a volte sono utili ma spesso sono costate dolori inenarrabili nella storia.
In questo momento e in un futuro prossimo, la più grande abilità sarà selezionare e risparmiarci le storie che sembrano buone ma che in realtà ci portano nel baratro.
Serve imparare a smascherarle, ignorarle, se necessario ironizzarci sopra, non comprarle e tirare dritto.
Serve sviluppare la capacità di separare l’empirico dal sensazionale, l’amore dall’interesse e la “pornografia esistenziale”, che è il regno del favolistico e la terra senza complicazioni, dalla realtà, più complessa, concreta e spesso dolorosa.
“La migliore vendetta su un bugiardo è quella di convincerlo di aver creduto alle sue parole.”
Nassim Taleb
Una bugia di 700 anni
Il 29 agosto 1255 il corpo di un ragazzo inglese di nove anni di nome Hugh fu ritrovato in fondo a un pozzo nel villaggio di Lincoln. Anche senza Facebook e Twitter, si sparse in fretta la voce che Hugh fosse stato ucciso dagli ebrei del posto durante uno dei loro riti. La storia si ingigantì con il passaparola e uno dei più influenti cronisti inglesi del tempo – Matthew Paris – fornì una dettagliata, macabra descrizione di come rappresentanti di primo piano della comunità ebraica si fossero dati appuntamento a Lincoln per ingrassare, torturare e alla fine crocifiggere il bambino rapito. Diciannove ebrei furono processati e giustiziati per tale delitto.
Ma non solo.
Diffamazioni altrettanto sanguinose divennero popolari in altri paesi inglesi, provocando una serie di “pogrom” in cui intere comunità furono massacrate. Alla fine, nel 1290 l’intera popolazione ebraica fu espulsa dall’Inghilterra.
Ma non solo.
Un secolo dopo l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra, Geoffrey Chaucer – il padre della letteratura inglese – includeva una diffamazione modellata sulla storia di Hugh di Lincoln nei Racconti di Canterbury (“Il racconto della madre priora”). Il racconto culmina con l’impiccagione degli ebrei. In seguito, altre simili storie sanguinose servirono da giustificazione per ogni persecuzione e movimento antisemita dalla Spagna tardomedievale alla Russia moderna.
Tornando a Hugh di Lincoln, nessuno sa come sia morto, ma venne sepolto nella cattedrale di Lincoln e venerato come un santo. Si ritiene che da morto abbia operato vari miracoli, e la sua tomba ha continuato ad attirare pellegrini anche secoli dopo l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra.
Soltanto nel 1955 – dieci anni dopo l’Olocausto e settecento dalla invenzione di questa storia – la cattedrale di Lincoln ripudiò la sanguinosa menzogna, collocando una targa nei pressi della tomba di Hugh che chiariva : “Storie inventate di “assassini rituali” di ragazzi cristiani praticati dalle comunità ebraiche sono state diffuse in tutta Europa durante il Medioevo e anche molto tempo dopo. Queste storie sono costate la vita a molti ebrei innocenti.”
(questa storia è stata raccontata da Yuval Noah Harari in “21 lezioni per il ventunesimo secolo”. Può essere approfondita anche partendo da qui
Il lato oscuro delle storie
In quello che stai leggendo c’è il rischio che possa venire maltrattato un termine molto di moda e a cui tanti sono affezionati: “storytelling”. Questo termine inglese, che negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere e accogliere nelle nostre vite – dalle scuse al partner ai manifesti programmatici di tante aziende… – è quello che viene meglio per spiegare l’atto di raccontare storie.
Quindi lo storytelling è il male assoluto? No, certo che no.
Ho tanti cari amici che di storytelling ci vivono, che lo fanno con passione, professionalità ed etica. Anche io, senza nascondermi dietro un dito, posso in qualche modo e a volte rientrare nella categoria.
Tutte le narrazioni a anche queste righe, in cui tento di presentare in bel modo le mie opinioni, sono storytelling.
Lo scrivo per evitare fraintendimenti e confusioni. Non voglio sparare nel mucchio. Però voglio piantare un picchetto, un gancio in parete che aiuti a non cadere nella fossa scavata dalla strumentalizzazione esasperata della narrazione operata da esperti di marketing che la svuota di morale e forse anche di etica
C’è chi usa lo storytelling in modo virtuoso e finalizzato a migliorare la situazione e chi lo usa come una mazza chiodata per proprio tornaconto.
Lo strumento come spesso accade è neutrale.Il comportamento poi cambia la sua natura.
Che si parli allora di storytelling, storie, narrazioni o l’arte di raccontare storie, il rischio, per chi ascolta e per chi compra, è sempre molto alto.
È un rischio insito nella natura umana e nei concetti stessi di storie e storytelling.
Partiamo da qui: cosa significa storytelling?
Lo storytelling – stando a Wikipedia – descrive l’attività sociale e culturale della condivisione di storie , a volte con improvvisazione , teatralità o abbellimento.
Una caratteristica però importante, suggerita da “National Storytelling Network” è che lo storytelling incoraggia l’immaginazione attiva da parte degli ascoltatori.
“Nella narrazione, l’ascoltatore immagina la storia. Nel teatro più tradizionale o in un tipico film drammatico, d’altra parte, l’ascoltatore gode dell’illusione di essere effettivamente testimone del personaggio o agli eventi descritti nella storia.”
In particolare, però lo storytelling non crea una barriera immaginaria tra chi parla e chi ascolta.
Questo è ciò che distingue lo storytelling dalle forme del teatro che usano un immaginario “quarto muro”. La natura interattiva della narrazione spiega in parte la sua immediatezza e impatto. Se fatta bene la narrazione riesce a collegare direttamente e strettamente il narratore con il pubblico.
Così la storia completa accade nella mente dell’ascoltatore dello story teller che diventa o crede di essere diventato un co-creatore della storia.
Lo storytelling è l’evoluzione tecnologicamente avanzata della narrazione, sviluppato con l’intento preciso di vendere. A tutti i costi. Con la complicità di chi ascolta.
Qui ci addentriamo nella parte che più mi sta a cuore.
Una spiegazione di “storytelling” tra le più accettate viene da un grande narratore del nostro tempo: Alessandro Baricco.
Come ha più volte sostenuto: “Sfila via i fatti dalla realtà: quel che resta è storytelling.”
Questo però, continua Baricco, non significa si tratti di fandonie.
“Lo storytelling non è una sovrapposizione in un secondo momento. È una parte della realtà. Ve lo dico nella maniera più brutale: un fatto, senza storytelling, non esiste. Non è reale.
Una moneta, strumento geniale, è composta da un fatto – cioè che è un dischetto di metallo di un certo peso, di un certo valore – dopodiché chi la conia stampa sulle due facce qualcosa. Quello che era un dischetto di metallo – un fatto – diventa una realtà vera. Quello che ci stampa sopra è storytelling. Moneta: la realtà formata da un fatto – la quantità di materiale – e da un gesto – lo storytelling – che ne fa una moneta”.
Da qui nascono a mio avviso importanti riflessioni.
La prima è che una storia… è solo una parte della storia. Ci dev’essere, come nelle monete, un’altra faccia. Un altro lato. Un lato che, come vorrei approfondire tra qualche riga, potrebbe essere oscuro e manipolatorio.
La seconda riflessione è che l’ascolto della storia richiede coinvolgimento e accettazione da parte di chi la ascolta.
La storia non funziona senza la collaborazione attiva dell’ascoltatore.
L’esempio della moneta, inteso come concetto economico, è emblematico ma anche molto utile per approfondire.
Questo tipo di coinvolgimento – credere in una storia – dipende da due fattori:
“Detta una volta è una bugia, detta mille volte è una verità.”
Ad esempio, quando vediamo una banconota tutti dimentichiamo che si tratta di un biglietto di carta alla quale qualcuno, e infine noi, abbiamo deciso di dare un valore. Nessuno, citando ancora Yuval Noah Harari pensa: “Effettivamente, questo è un pezzo di carta senza valore, ma poiché anche altri lo considerano come qualcosa di valore, allora io posso usarlo.”
Questo per dire – spiegare sarebbe pretenzioso e difficile – che quando diciamo che ciò in cui crediamo è per metà un fatto e metà una storia, ci dimentichiamo che spesso viviamo invece di realtà composte di storie per la loro totalità
Allora ancora più importante è valutare la proporzione con cui nelle storie si mischiano fatti e storie.
Narrare non è una cosa che abbiamo scoperto noi contemporanei né frutto di questa società digitale in cui siamo ormai tutti opinionisti, narratori ed editori.
Le storie sono in mezzo a noi da molto più tempo: dai disegni nelle caverne ai racconti orali alla filosofia.
Tra i primi ad averne indagato la struttura, è utile citare Aristotele.
Aristotele diceva che qualsiasi tipo di persuasione (possiamo qui leggere anche come storia, senza dare per forza una accezione negativa) è composto da tre parti essenziali: ethos, pathos e logos. Ethos è la parte che convince il pubblico della credibilità del relatore (o il personaggio principale della storia), pathos è l’appello emotivo che il relatore fa, facendo sentire al pubblico ciò che vuole che provino, e il logos è la logica, ragionamento e dati che l’oratore usa come prova per sostenere tutto ciò che dice.
Ora però tutte quelle tecniche che una volta erano appannaggio degli oratori professionisti e dei politici e oggi sono nella cassetta degli attrezzi di qualsiasi venditore: viaggio dell’eroe, dispositivi linguistici, tecniche di persuasione… tutte cose che incidono sul pathos.
Ecco il punto: il problema nasce quando le proporzioni tra questi tre elementi non sono bilanciate. Quando ad esempio il pathos, o anche l’ethos, diventa l’ingrediente principale o addirittura l’unico.
Le pubblicazioni scientifiche ad esempio, come ha spiegato la giornalista scientifica Maria Konnikova nel suo libro “The Confidence Game” bandiscono la narrazione. Perché gli scienziati sanno che lo storytelling rievoca le emozioni e riattiva la razionalità, annebbiando l’analisi oggettiva
Se ripercorriamo “la storia delle grandi storie”, dalle religioni, alle teorie economiche e sociali, a quelle politiche che hanno dato il via a conflitti civili o internazionali, bisogna purtroppo convenire sul fatto che si sia quasi sempre trattato di “storie di pathos” con qualche spruzzata di realtà, magari anche alterata.
Vale ugualmente se ci caliamo nella realtà quotidiana e ci diamo un’occhiata attorno: quante cose abbiamo in casa ci servono davvero? Quante cose ci fanno davvero stare bene? Di quante cose che assumiamo pensando di stare bene abbiamo evidenza scientifica, ci siamo presi del tempo per verificarlo?
- Quante delle proposte per vivere meglio le nostre vite si basano su fatti anziché opinioni?
- Quanti consulenti che promettono di risollevare le nostre carriere e imprese, basano i propri metodi su esperienze reali e reali risultati?
- Quanti leader sono davvero leader?
- Quanti hanno contenuto e quanti solo aria?
Qualche anno fa scrissi un pezzo dal titolo “Leadership al gusto puffo” in cui sottolineavo già questo aspetto.
Mi sovviene adesso perché, pensandoci, molte delle cose che ci stanno intorno, che abbiamo fatto entrare in casa, hanno, quanto a narrativa, la stessa caratteristica di quello strano gusto.
Il gusto “puffo” è un gusto chimico, inesistente in natura, incoerente con l’origine del cibo ma che tanti acquistano ugualmente e volentieri.
Sappiamo tutto sulla sua incoerenza esistenziale e sulle discutibili virtù nutritive ma il racconto, lo story-telling “Puffo” vince.
Compriamo cose e seguiamo leader al gusto puffo, e non ci interessa che siano buoni quanto piuttosto ci basta che ci suonino buoni e appaiano colorati.
Mi permetto di affondare il coltello nella piaga e dire che non è un loro merito quanto piuttosto un nostro demerito.
Sappiamo tutto ma siamo deboli. Anzi. Le nostre personali storie lo sono.
Non sono le informazioni che mancano, sono le nostre storie ad essere deboli
Altro elemento importante che riguarda le cattive storie e il motivo per cui hanno così tanto mercato è quello un altro tipo di narrazioni, che per non confonderci con i termini chiamerò credenze.
Si diceva che un fattore di successo di ogni narratore/storyteller/persuasione sta nell’aiuto dell’ascoltatore.
Non sono tanto i narratori a decretare il successo di una storia, quanto chi la ascolta che le dà credito e successo. E lo fa con un comportamento che si chiama “sospensione dell’incredulità”.
L’atto con cui, deliberatamente, mettiamo da parte quella vocina intelligentemente sospettosa che ci dice “non ti fidare”, “perché ti stai fidando?”, “sicuro che non menta?”
E questo, come dicevo, dipende dalle nostre credenze. Ogni volta che sospendiamo l’incredulità e il giudizio lo facciamo per accontentare la nostra voglia di un lieto fine, di percorsi facili, di ricerca di un colpevole. La nostra pigrizia innata e il nostro bisogno di credere che tutto andrà bene sempre.
Quando qualcuno, ripercorrendo gli orrori dell’Olocausto, taglia corto dicendo che oggi non potrebbe succedere, io ho sempre molto timore. Perché non dipende tanto dal fatto che noi sappiamo, che abbiamo le informazioni ma piuttosto dalla nostra volontà, dalle nostre credenze.
Potrebbe succedere. Anzi, potrebbe succedere di peggio.
Siamo circondati da astronomi senza telescopio, da virologi senza studi, da complottisti che non si sono mai mossi da casa, da esperti di spionaggio e guerre segrete che non parlano nemmeno l’italiano. Da persone che, apparentemente, non credono a nessuno ma in realtà che sono solo la rappresentazione pratica di un comportamento molto umano: la creduloneria.
Prendiamo questo momento storico e il Covid-19: perché tante persone diffondono fake news convinte che ci sia un complotto? Non lo fanno affatto per il fatto di essere scettici, lo fanno per la pigrizia – o a volte limitate capacità critiche – di andare a cercare da sé i fatti e farsi una propria opinione. Non sono affatto scettici, sono persone che amano credere semplicemente a cose semplici.
Tamponi un’auto mentre passa un uccello nero e sei al cellulare? Hai due possibilità. Legare l’evento al volatile o alle onde elettromagnetiche del telefono.
Un antico romano avrebbe scelto la prima.
Molti di noi la seconda.
Ogni altra strada è più complicata e peggiorativa, perché è faticoso pensare e spesso implica anche prenderci parte o tutta la responsabilità. Cose a cui siamo allergici come specie.
Quando padri e madri di famiglia prendono quei pochi soldi che hanno da parte e li “investono” in attività che promettono ricchezza (che solitamente narrano che gli altri sono stupidi e non hanno il coraggio di contravvenire lo status quo) non lo fanno perché non hanno accesso alle informazioni ma perché sono troppo avvilite da una situazione da avere solo voglia di credere.
Disperazione e paura sono l’humus perfetto per le cattive storie. Perché saltano fuori i narratori abili e meschini e soprattutto perché è in quel momento che avviene più di ogni altro momento la sospensione dell’incredulità.
La paura ti rende distratto e credulone.
Non sono le informazioni che ci mancano, sono le storie che ci raccontiamo ad essere deboli.
Prima di lavorare sulle tecniche per difendersi dalle storie – come pareva voler fare Cialdini nel bestseller “le armi della persuasione”, che oggi pare abbia avuto l’effetto contrario – bisogna lavorare su ciò che ci motiva.
Più che la tecnologia, che oggi pare il fulcro di tutto, bisogna lavorare sulla tecnologia delle idee.
- Facilità vs impegno e duro lavoro
- Ottimismo cieco vs ottimismo realistico
- Qui ed ora vs pensiero lungimirante
- Pubblicità vs vita reale
- “Pornografia esistenziale” vs quanto realmente succede.
Le storie sono come la borsa: se tu perdi, stai sicuro che qualcuno ci guadagna
Simile alla sospensione dell’incredulità, o forse strettamente legato, c’è un altro aspetto: “ il riporre fiducia”.
La fiducia mi ha aiutato a vivere e ne ho parlato e scritto per tutta la mia vita. È ciò che muove il mondo. Ma anche ciò che può rovinarlo.
La domanda giusta per risolvere il puzzle dell’esistenza è: “di chi possiamo fidarci?”
Una cartina tornasole, per quanto possa apparire cinico, è la paranoia, una psicosi caratterizzata da un delirio cronico, che si fonda su un sistema di convinzioni, soprattutto quella di essere perseguitati.
“Bisogna essere aggressivi e spensierati quando un errore di valutazione può avvantaggiarci, ma paranoici quando ci può danneggiare”.
Nassim Taleb
Serve essere paranoici e sospettosi.
A proposito di storie che ci raccontiamo, e che permettono di acquistare quelle altrui, bisogna lavorare sulla analisi della bontà di chi dispensa soluzioni a nostro favore ed indagare con attenzione.
Trovo un’analogia interessante con una riflessione a prova di sciocco, direi “for dummies” proposta nel film “La Grande Scommessa”: molte persone pensano che quando si dice “bruciati tot miliardi in borsa, siano andati in fumo. La verità è che qualcuno li ha persi ma qualcuno li ha guadagnati”.
Allo stesso modo nelle storie cattive e “pornografiche” succede lo stesso: qualcuno vince, qualcuno perde ma te ne accorgi solo dopo che quello che perde sei tu.
Il mestiere di noi esseri umani è dare del filo da torcere ai problemi della vita. E non perdere, dunque questo tipo di gare.
Che fine ha fatto Superman?
Da qui una “tecnica infallibile” per smascherare le storie buone da quelle cattive, quelle in cui vinciamo da quelle in cui perdiamo, quelle in cui come si dice vi è un “win win” da quelle in cui qualcuno si prende tutto e ci lascia moribondi.
Gli antichi romani lo praticavano migliaia di anni fa. Quando gli “ingegneri” del tempo progettavano e costruivano un ponte era consuetudine che il giorno dell’inaugurazione sostassero sotto il ponte stesso mentre i primi passanti e carriaggi lo testavano. Nessuno progetta male un ponte se il giorno dell’apertura deve stare sotto la costruzione.
È quello che Nassim Taleb definisce pelle in gioco.
Ed è il motivo per cui i guru, dispensatori automatici di verità e modi veloci per svoltare la vita, sono in mezzo a noi sino al momento di incassare. E poi spariscono.
Come in questi giorni così difficili e cupi: ne avete visto in giro qualcuno a dare soluzioni?
Forse qualcuno continua a vendere, sfruttando senza scrupolo ed in modo moralmente discutibile la disperazione e la paura, Ma pochi si stanno mostrando adesso in giro con reali consigli o gesti concreti che implichino che hanno la pelle in gioco.
Pochi sono disponibili ad esserci ora che dall’area di comfort non solo siamo usciti tutti ma per un pezzo non ci ritorneremo più.
Adesso è l’ora di esserci.
L’incendio è ora. I pompieri servono ora. Non prima, non dopo. Ora. E prima di chiedere va fatto.
Maker or taker?
Ora che si rischia sul serio la credibilità in molti preferiscono dileguarsi.
Quando il ghiaccio si scioglie si vedono i buchi.
E i guru, come molti re, sono nudi.
Le storie ora sono nude. Solo fatti. Zero fuffa.
A noi la voglia la determinazione di accrescere la capacità di creare le nostre storie svelando quelle false dannose.
Nuovi modelli
Oltre cento anni fa, Sir Ernest Shackleton, a bordo della nave Endurance, si preparava ad essere il primo uomo ad attraversare l’Antartide ma dopo poco tempo fu chiaro che non ci sarebbe mai riuscito. La nave rimase infatti intrappolata in enormi blocchi di ghiaccio fino a schiacciarla.

Fu in questa occasione che Shackleton impartì una lezione che può venire ancora utile: quando le circostanze cambiano anche i piani devono cambiare.
Disse ai suoi uomini: “la nave è andata, adesso torneremo a casa”. Da quel momento pretese che tutti continuassero a fare ugualmente il proprio lavoro, mantenere i turni e i propri doveri, si facessero compagnia la sera.
Attraverso la routine, l’ordine e l’interazione, Shackleton riuscì a contrastare la paura che subentra quando i viaggi non vanno come previsto. Dopo mesi e grandi difficoltà Shackleton riuscì a partire con pochi uomini a bordo di una lancia e raggiungere South George Island e chiedere aiuto; tutti e 28 i membri dell’equipaggio furono salvati. Quasi un anno dopo.
Racconto spesso questa storia come esempio di resilienza ma anche di leadership in momenti di crisi; doti quanto mai attuali.
Ma c’è anche un’altra storia che richiama questa storia.
Sir Raymond Edward Priestley, geologo ed esploratore inglese, arruolato nella spedizione di Shackleton, disse qualche anno dopo l’impresa dell’Antartide:
“Per la scoperta scientifica dammi Scott; per la velocità e l’efficienza del viaggio, datemi Amundsen; ma quando il disastro colpisce e la speranza è sparita, mettiti in ginocchio e prega per Shackleton.“
Ecco, penso che in un momento come questo ciascuno di noi debba riconsiderare i propri modelli. Non sono tempi facili né tempi normali. Superman non ci serve più, ci servono nuovi, reali e concreti modelli.

Manager, Advisor, Autore, Speaker|
Per oltre trent’anni sono stato nel mondo delle vendite, iniziando da agente sino ad arrivare ad occupare posizioni apicali in aziende come Diesel, Adidas, 55DSL, OTB.
Parallelamente ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della motivazione e della crescita personale, convinto che spetti sempre a noi prendersi la responsabilità delle nostre esistenze.
Questo mi ha portato a studiare, cercare, testare, risposte ai continui quesiti della vita e del lavoro, come: “Perché alcune persone sono in grado di correre ultramaratone e altre faticano ad alzarsi dal divano?” “E perché le stesse persone che corrono una ultramaratona nel weekend, in ufficio svogliate ti rispondono: Prenditela tu la risma per la stampante?”
Da ormai vent’anni ho fatto di questo il mio lavoro e la mia missione, aiutando individui e organizzazioni a raggiungere gli obiettivi mantenendo la propria umanità.
Alcune delle aziende e organizzazioni con le quali ho collaborato, come formatore e speaker, comprendono: Amway, Banca Mediolanum, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Bayer, Calzedonia, Cassa Centrale ,CNA, Confartigianato, Confindustria, Giuffrè Editore, Herbalife, Juice Plus, Just Italia, JUUL, LIoyd’s, Liu·Jo, Lotto, Nespresso, Revlon, Scavolini, Sony Italia, UNIPD, Wella e molti altri.