Cigni e virus. Neri, grigi, verdi e bianchi.

In Approfondimenti, La Grande differenza
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È un mondo difficile. E un momento difficile. Siamo inondati da notizie di un mondo che va a rotoli e anche quando si assiste a una narrazione che tenta di rendere più digeribile il problema questo non cancella il fatto che le piccole e medie imprese italiane vengano messe in ginocchio, così come i consulenti e gli imprenditori che erano quasi convinti di stare finalmente imboccando una buona strada e che invece incappano nel proverbiale pugno in faccia del quale parlava Tyson.

Come uomini e donne siamo chiamati epicamente a resistere e dimostrare di essere più forti anche di quest’avversità – per inciso, sono convinto che ce la faremo, anche questa volta. Ma abbiamo bisogno di provare a spiegarci cosa è successo e perché.

Ecco, in questa interpretazione degli eventi, in salsa social e digitale, in cui tutti pensano di saperne di più sembrano emergere correnti principali e opposte, come moderni guelfi e ghibellini.

Per alcuni è poco più di un’influenza, per altri è la peste.

È un effetto della tendenza umana quello di spiegarsi cosa accade in un misto di fatalismo e de-responsabilizzazione.

Indice di questo mi sembra essere il numero di volte in cui, su colonne anche autorevoli, nazionali come internazionali, ma ormai probabilmente anche nei bar del paese, o sui social, compare il termine Cigno Nero.

Cigno Nero, concetto sul quale vorrei riflettere tra poco, appare oggi un’idea terribile ma salvifica perché, semplificando, ci dice che: è un momento difficile ma in fondo non è mica colpa nostra. Era impossibile da prevedere.

Come è fatto un cigno nero

Nel 1696 il navigatore  olandese Willem de Vlamingh lascia Amsterdam delle coste sud ovest di Nieuw Holland, per facilitare la navigazione sulla rotta per l’Oceano Indiano dal capo di Sudafrica. Tre navi al suo comando: la Geelvink, la Nyptangh e la Wezeltje.

Alla fine dello stesso anno raggiunge la costa e avvista terra. L’isola che si trova davanti è però coperta da una nebbia fitta che impedisce di comprendere bene cosa si trova davanti e tiene il suo equipaggio in mare per alcuni giorni. Forse per noia, forse per pigrizia, decide comunque di dare un nome alla sua scoperta e battezza il territorio, che non ha ancora avuto modo di esplorare, come Mist Island (isola nebbiosa). Passata la nebbia e finalmente a terra nota un altro elemento coglie la sua attenzione.

L’isola è popolata da ratti giganteschi, che si scopriranno poi una specie di marsupiali chiamati “quokka” e decide di cambiare il nome dell’isola in isola di Rottnest .

Qualche giorno dopo è un altro animale a lasciarlo stupito e dare il nome a un fiume appena incontrato. Per la sua incredulità e il terrore dei suoi marinai, quel corso d’acqua appena incontrato è popolato da cigni neri. Mai visti, mai pensato fosse possibile. Da lì il nome dato all’estuario, Swartte Swaane Drift o come è noto oggi, “Swan River”.

Oggi può sembrare un aneddoto curioso ma all’epoca fece davvero molto scalpore e sull’isola di Perth si può ammirare una statua che raffigura tutto lo stupore del capitano Willem de Vlaminghc dal suo primo incontro con un cigno nero.

Da questo evento parte la riflessione di Nassim Taleb, filosofo, matematico ed esperto di rischi e probabilità, autore della teoria del Cigno Nero e dell’omonimo libro, per evidenziare quello che ritiene un grave limite del nostro apprendimento, basato su osservazioni ed esperienza: negare, e dunque non considerare e prevedere, ciò che non conosciamo.

La tesi di Taleb, che caratterizza il libro in questione – ma è ben presente anche in tutte le sue successive pubblicazioni: Antifragile, Giocati dal caso, Rischiare grosso – è che ignorare questo genere di eventi improbabili, ritenuti tali perché non ancora incontrati nella nostra storia, ci renda vulnerabili perché il mondo è principalmente modellato da questo tipo di eventi. E lo sarà sempre più in futuro.

“L’accelerazione è iniziata durante la rivoluzione industriale, poiché il mondo è diventato più complicato, mentre gli eventi comuni, quelli che studiamo e cerchiamo di prevedere leggendo i giornali, sono divenuti sempre più irrilevanti.” Nassim Taleb

Le tre caratteristiche di un Cigno Nero, secondo l’autore, sono ben definite e devono sussistere contemporaneamente: raritàimpatto enorme e prevedibilità retrospettiva ma non prospettiva, cioè impossibile da prevedere prima ma che si tende a spiegare come prevedibile quando si verifica.

Questo è quanto definisce Taleb un Cigno Nero e, per certi versi, sembra che il coronavirus che stiamo affrontando rientri in questa descrizione. Ma ci sono alcune considerazioni che dovrebbero dirci che no, non si tratta di un cigno nero.

Per prima cosa l’imprevedibilità.

Per imprevedibilità Taleb indica qualcosa al di fuori dall’ordinario, di mai incontrato e dunque neppure immaginabile. Per spiegarlo Taleb fa un’analogia con il mondo del business.

“Pensate alla «ricetta segreta» per ottenere un grande successo nel settore della ristorazione. Se fosse nota ed evidente qualcuno l’avrebbe già proposta e sarebbe diventata banale. Per ottenere un grande successo nella ristorazione è necessaria un’idea che l’attuale popolazione dei ristoratori non possa concepire con facilità. Dev’essere lontana dalle aspettative. Più la riuscita di una simile impresa è imprevista, minore è il numero dei concorrenti e maggiore è il successo ottenuto dall’imprenditore che la mette in pratica. La stessa cosa vale per il settore calzaturiero, per quello dell’editoria e per qualsiasi altra attività imprenditoriale, nonché per le teorie scientifiche: a nessuno interessa ascoltare banalità. In generale, il successo di un’impresa umana è inversamente proporzionale alla sua prevedibilità.”

Cambiando campo, l’esempio emblematico e più semplice da comprendere è l’attentato dell’11 settembre 2001 a NYC.

Oggi ci appare comprensibile, nella sua tragicità, il fatto che qualcuno possa utilizzare un aereo di linea come strumento per un attentato. Così come sembrano logiche e scontate tutte le innovazioni in termini di sicurezza negli aeroporti e sui voli: porte corazzate in cabina, divieto di introdurre liquidi a bordo, controlli più accurati prima dell’imbarco e body scanner.

Ma prima? Chi ci avrebbe pensato prima?

Al pari del capitano Willem de Vlamingh e dei suoi uomini, nessuno lo riteneva immaginabile.

Detto questo, possiamo dire che l’emergenza che stiamo affrontando abbia le stesse caratteristiche?

Prima di rispondere, provare a leggere questo.

“La gente stava collassando e morendo ovunque. Gli ospedali erano pieni e allontanavano i pazienti, che offrivano enormi tangenti per entrare.

Le persone si evitavano a vicenda, allontanando la testa se dovevano parlare, isolandosi.

Gli eventi sportivi sono stati cancellati. Teatri chiusi. La stretta di mano fu resa illegale a Prescott, in Arizona, mentre Philadelphia si affrettò a creare altri sei obitori. Le famiglie hanno messo carta crespa sulle porte per segnalare una morte all’interno – ed era ovunque.”

È un passaggio de La Grande Influenza, il libro di John M. Barry che racconta l’influenza spagnola.

Quell’epidemia di influenza spagnola del 1918, uccise almeno 50 milioni di persone in tutto il mondo, e da allora è stata il punto di riferimento per le pandemie.

Walter Reed Hospital reparto influenzale durante l’epidemia di influenza spagnolo del 1918-19, a Washington DC. Photo: Everett Historical on Shutterstock

Per decenni – ha scritto l’altro ieri l’opinionista Nicholas Kristof, sulle pagine del New York Times, riportando proprio il passaggio del libro – gli esperti di salute pubblica hanno chiesto preparativi per un altro “grande” – eppure non sono mai stati fatti preparativi adeguati.

Senza tornare al 1918, sono passati diciassette anni dalla SARS, abbiamo avuto ebole, aviarie, suine, Nipah. Virus di tutti i tipi.

L’allarme era già suonato molte volte.

Non sono le cose che non sai a metterti nei guai. È quello che dai per certo che invece non lo è. (Mark Twain)

Nota: in questo momento il nome di Nassim Taleb, le sue idee e in particolare la teoria del Cigno Nero domina la scena e compare in quasi tutti gli articoli che affrontano il coronavirus in termini di rischio, prevedibilità o imprevedibilità. Nassim Taleb però non sembra aver commentato ufficialmente la vicenda, etichettandola come cigno nero o meno. I suoi interventi di questi giorni, è molto attivo sui canali Twitter @nntaleb e @black_swan_man sono stati orientati nel ribadire come “gli esperti” ignorano il concetto di probabilità e come i processi “moltiplicativi” con i quali si diffonde il virus non sono paragonabili a quelli di un’influenza o altre epidemie nella storia. Da questo link si può scaricare gratuitamente il nuovo libro di Nassim Taleb, in versione pdf, che indaga sull’errata applicazione delle tecniche statistiche convenzionali alle distribuzioni dalla coda grassa.

Di cosa siamo responsabili?

Bill Gates ha pubblicato un articolo sul suo blog in cui provava a tracciare la rotta di fronte all’emergenza. Inizia con una riflessione tanto ovvia quanto cruciale.

In qualsiasi crisi – scrive- i leader hanno due responsabilità altrettanto importanti: risolvere il problema immediato e impedire che si ripeta. La pandemia COVID-19 è un ottimo esempio in questo senso. Il mondo ha bisogno di salvare vite umane ora migliorando anche il modo in cui rispondiamo alle epidemie in generale. Il primo punto è più urgente, ma il secondo ha conseguenze cruciali a lungo termine.

Il terzo punto viene da dire è che questa riflessione dovevamo farla prima. C’erano state tante occasioni in cui non solo contrastare l’emergenza ma prepararsi a quelle future.

Nel settembre 2019 un rapporto redatto su richiesta del segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: “Se è corretto dire che ‘il passato è il prologo’, allora esiste la minaccia assai concreta di una pandemia in rapido movimento, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccide da 50 a 80 milioni di persone in grado di causare la distruzione di quasi il 5% dell’economia mondiale”. Fonte

Un pericolo il cui “enorme impatto” era ancora più prevedibile. Come apparso in una pubblicazione apparsa su The New England Journal of Medicine: “Le principali epidemie associate all’affollamento umano, al movimento e all’inadeguatezza sanitaria si sono verificate una volta senza diffondersi a livello globale – ad esempio, le pandemie interregionali della peste del VI, XIV e secolo successivo; pandemie influenzali a partire dal IX secolo; e pandemie di colera tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Quando le pandemie veramente globali divennero comuni – per esempio, l’influenza nel 1889, 1918 e 1957 – si diffusero a livello internazionale per ferrovia e nave. Poi, nel 1968, l’influenza divenne la prima pandemia diffusa dai viaggi aerei, e presto fu seguita dall’emergere di congiuntivite emorragica enterovirale acuta diffusa tra gli aeroporti internazionali. Questi eventi hanno inaugurato la nostra moderna era epidemica, in cui qualsiasi malattia che si verifica in qualsiasi parte del mondo può comparire il giorno successivo nel cortile del nostro vicino. Abbiamo raggiunto questo punto a causa dei continui aumenti della popolazione umana, dell’affollamento, del movimento umano, dell’alterazione ambientale e della complessità ecosistemica legata alle attività e alle creazioni umane.”

C’è un cane nella stanza?

Rimango convinto che sia meglio lasciare parlare gli esperti e anche del fatto così che serve a poco dire a posteriori cosa si sarebbe dovuto fare.

Quel che mi preme è però riflettere sulla nostra cecità in parte volontaria verso gli imprevisti.

Roberto Burioni, il noto medico e divulgatore scientifico, ha utilizzato su Twitter una frase che penso descriva bene la situazione: “Ormai va di moda dire che in una stanza c’è un cane solo se ti morde.”

È una triste verità che ho sperimentato in prima persona quando qualcuno mi hanno fatto notare che secondo lui nel mio libro “Alternative”, in cui invito ad aspirare al meglio ma prepararsi per il peggio, non ci fosse abbastanza ottimismo.

Ho risposto che il fatto che su una nave da crociera ci siano le scialuppe di salvataggio non significa che la nave sia stata costruita male o che l’armatore o il capitano siano pessimisti.

È esattamente il contrario.

La tendenza umana è quella di porre rimedio solo quando il danno è fatto, quando anche gli sforzi più immani servono a poco.

La tendenza è quella di minimizzare i rischi e scrollarsi la responsabilità di eventi che ci sono avversi.

Certo l’imprevedibile fa parte del nostro mondo ma la conseguenza non può essere quella di mandare giù tutto per forza.

Se non è possibile prevedere qualcosa possiamo comunque sempre fare qualcosa per contrastarlo.

Già ammettere l’incertezza è un buon antidoto all’incertezza.

Prima abbiamo parlato dell’attentato del 11 settembre. C’è una storia che coinvolge lo stesso Taleb e che ha contribuito ad aumentare la sua fama e quella del cigno nero. Nel suo precedente libro, “Giocati dal caso”, pubblicato una settimana prima della tragedia delle torri gemelle, descriveva l’eventualità che un aereo si schiantasse contro un edificio.

All’indomani dell’attentato, come molti ricorderanno, apparvero diversi articoli e interviste in cui qualcuno lo aveva previsto; lunghi ragionamenti in cui si elencavano tutti gli indizi che lo rendevano prevedibile. Di fronte a queste analisi posteriori anche eventi imprevedibili appaiono logici e prevedibili. È davvero così? Possiamo davvero prevedere eventi rari e di drammatica intensità che sconvolgono le nostre vite?

Appreso che Taleb aveva “previsto” l’evento, l’autore venne chiamato in diverse trasmissioni o dai giornali per spiegare come ci fosse riuscito. Qualcuno iniziò a ritenerlo un futurologo super efficace e iniziò a chiedergli di prevedere i prossimi grandi “cigni neri”.

Taleb però, come si trovò a dover rispondere:

“Non lo avevo previsto, è stato un caso. Non sono un oracolo! So che la storia sarà dominata da un evento improbabile, ma non so quale sarà.”

Sapere che la storia sarà dominata da un evento improbabile anche se non sappiamo quale sarà. Ammettere l’incertezza. Ecco un primo passo.

Lavorarci sopra è il secondo.

Per alcuni potrà sembrare anche paranoia ma in un mondo così mutevole e complesso serve anche una buona (sana) dose di paranoia.

Sicuramente più efficace della superficialità, della deresponsabilizzazione, del fatalismo.

Come ha risposto su Twitter Nassim Taleb, in relazione alle precauzioni di questi giorni: “quando sei paranoico, puoi sbagliarti mille volte e sopravvivi. Se non paranoico; sbagli una volta, e hai finito.”

Cigni bianchi e verdi (e altri errori)

Lo psicologo Philip Tetlock ha studiato le attività di esperti politici ed economisti. Ha chiesto a vari specialisti di giudicare con quale probabilità alcuni eventi politici, economici e militari si sarebbero potuti verificare in uno specifico lasso di tempo (circa cinque anni). Coinvolgendo quasi trecento specialisti ottenne circa ventisettemila previsioni. Gli economisti rappresentavano circa un quarto del campione. Lo studio rivelò che i tassi di errore degli esperti erano molte volte superiori a quelli previsti e mise in luce il problema degli esperti: non c’erano differenze tra i risultati di laureati e dottorati; i professori con varie pubblicazioni non avevano alcun vantaggio rispetto ai giornalisti.

Ma il suo studio fece emergere un aspetto ancora più interessante: il meccanismo con cui i soggetti generavano spiegazioni a posteriori.

1)      Dire a sé stessi che pensavamo che il gioco fosse diverso.

Se sbagliamo o manchiamo la previsione di un evento, la storia più plausibile che possiamo raccontarci è che se avessimo avuto le giuste informazioni saremmo sicuramente stati in grado di prevedere un dato evento. Non è insomma colpa delle nostre capacità.

2)      Invocare l’evento isolato

Quello che è successo non rientrava nel sistema, non rientrava nell’ambito della scienza. Dato che non era prevedibile, non è colpa nostra. Si è trattato di un Cigno nero, e noi non siamo tenuti a prevedere i Cigni neri.

3)      La difesa dell’aver avuto quasi ragione

A posteriori, grazie a una revisione dei valori e a una struttura informativa, è facile pensare di esserci andati vicini. Scrive Tetlock: «Gli osservatori dell’ex Unione Sovietica che nel 1988 ritenevano che il partito comunista non potesse essere scacciato dal potere entro il 1993 o il 1998 erano inclini a pensare che nel colpo di stato del 1991 i falchi del Cremlino fossero quasi riusciti a sconfiggere Gorbacˇëv, e che ce l’avrebbero fatta se i cospiratori fossero stati più risoluti e meno esaltati, se gli ufficiali più importanti avessero eseguito l’ordine di uccidere i civili che sfidavano la legge marziale o se Eltsin non si fosse comportato in modo così coraggioso».

Questi tre punti sono  storie che ci raccontiamo anche noi, tutti. Come sono solito sostenere non sono le informazioni che ci mancano, sono eventualmente le storie che ci raccontiamo ad essere deboli.

La storia più debole che ci raccontiamo è che gli eventi imprevedibili, i cigni neri, esulano dalla nostra responsabilità, figuriamoci poi quando non sono nemmeno veri cigni neri.

Di fronte al virus che ci ha sorpresi ancora una volta, ma in futuro potrà riguardare il cambiamento climatico o le migrazioni di massa, sarebbe meglio iniziare ad usare altri termini. Termini che contemplino la nostra responsabilità e ci invitino all’azione, preventiva e consapevole, più che all’autopsia.

In “Crisis Economics” ad esempio, l’economista Nouriel Roubini, parlava di tipo di eventi – che sconvolgono e appaiono imprevedibili ma in realtà non lo sono – come di cigni bianchi.

In contrapposizione ai cigni neri, così tanto invocati in questi giorni, un cigno bianco è un pericolo che è sotto gli occhi di tutti. Se si torna indietro in questo articolo, le pandemie della storia, i dossier, le analisi, le paure degli esperti, confermano.

E se domani, se non già oggi, sul tema ad esempio del cambiamento climatico, sorgerà un problema con un impatto enorme, si tratterà anche in questo caso di un cigno bianco.

Oppure verde.

In un articolo di Steve Zwick , caporedattore di Ecosystem Marketplace, ho trovato questo concetto che reputo molto interessante.

Un cigno verde, nell’accezione dell’autore, è un cigno non solo bianco, abbastanza sotto gli occhi di tutti, ma del quale siamo direttamente responsabili, al quale rispondiamo con “Orecchie sorde e negazione ostinata”.

“Facciamo lo stesso con le città devastate dalla tempesta dopo che sono state colpite per la terza volta in un decennio da uragani una volta al secolo. Li trattiamo come disastri naturali isolati invece di eventi innaturali interconnessi causati dall’energia extra che i gas serra hanno intrappolato nel nostro sistema atmosferico – quanta più energia di quattro bombe atomiche che esplodono ogni secondo, secondo l’ultimo rapporto sul gap delle emissioni.”

Narrazioni “sporche”

“Proviamo le storie come si provano i vestiti”, dice lo scrittore svizzero Max Frisch. Niente di più vero.

Però scegliamo vestiti – cioè storie – comode, non realistiche. Sexy non necessariamente vere. Non sono le informazioni che ci mancano, sono le storie che ci raccontiamo ad essere deboli. E in questo siamo tutti responsabili.

Siamo inondati da storie sporche, ma tutti abbiamo il diritto di NON credere. È che non lo esercitiamo.

Nel 2016, l’Oxford English Dictionary decise di eleggere post-truth come parola dell’anno del 2016. Il termine post-verità, traduzione dell’inglese post-truth, indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza.

Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali.

Permettendomi un neologismo, proporrei che viviamo l’era della verità “ludico-pornografica”, termine che mi viene in mente unendo due concetti che considero geniali nella loro semplicità ed efficacia.

Il primo, la fallacia ludica, è un concetto tratto ancora una volta da Nassim Taleb.

La fallacia ludica consiste nell’applicare al mondo, e alla previsione degli eventi, così come all’analisi che facciamo per decidere la nostra mossa nelle varie sfide della vita, concetti matematici e tipici dei giochi. I giochi però, pensiamo a quelli di un casinò per semplificare, sono guidati realmente da concetti matematici e si giocano in ambienti sterili: ovvero non subiscono l’influenza della componente umana e imprevedibile. Subiscono il caso ma non il caos e la cattiveria.

Una bella storia per comprendere di cosa parliamo è raccontata da Taleb e coinvolge paradossalmente un casinò.

Le perdite più ingenti subite o evitate per poco dal casinò – che coinvolse Taleb come esperto del rischio – non rientravano assolutamente nei loro modelli sofisticati di previsione e assicurazione.

“Nel primo caso il casinò perse circa cento milioni di dollari quando  il domatore Roy ( che con Siegfried era una delle più grandi attrazioni di Las Vegas) fu attaccato da Mantacore, una tigre allevata dall’artista, il quale la lasciava addirittura dormire nella sua camera da letto. Fino a quel momento nessuno avrebbe  mai immaginato che l’animale avrebbe potuto rivoltarsi contro il padrone. Nell’analisi degli scenari il casinò aveva addirittura considerato l’eventualità che la tigre si avventasse sul pubblico, ma nessuno pensò di chiedere un’assicurazione per l’evento che poi si verificò.

In un altro caso il danno arrivò per via del sequestro della figlia del proprietario del casinò, il quale per pagare il riscatto violò le leggi sul gioco d’azzardo mettendo mano ai fondi del casinò. In un altro caso per l’imperizia di un dipendente che doveva inviare i moduli fiscali relativi alle vincite avvenute e li nascose invece, per ragioni del tutto inspiegabili, all’interno di scatole che mise sotto la propria scrivania. Il che portò a una multa record.

Conclusione: un rapido calcolo mostra che il valore in dollari di tali Cigni neri, ossia dei casi che non rientravano nei modelli, supera quello dei rischi previsti con un rapporto di 1000 a 1. Il casinò spendeva centinaia di milioni di dollari in teoria dei giochi d’azzardo e sorveglianza ad alta tecnologia, ma i rischi più gravi furono causati da eventi che non rientravano nei modelli. I rischi non avevano niente a che fare con ciò che ci si poteva aspettare.”

Se ancora il concetto non fosse chiaro, Mark Spitznagel, un trader, collega di Taleb, ha proposto una spiegazione molto semplice ed efficace: “il combattimento competitivo organizzato allena l’atleta a concentrarsi sul gioco e, per non perdere la concentrazione, a ignorare la possibilità di ciò che non è specificatamente consentito dalle regole, come calci all’inguine, forbice a sorpresa, eccetera. A vincere la medaglia d’oro, quindi, potrebbero essere proprio i più vulnerabili nella vita reale. Allo stesso modo, capita di vedere persone con muscoli enormi che nell’ambiente artificiale della palestra danno nell’occhio, ma che sono incapaci di alzare una pietra.”

Per intenderci, la fallacia ludica, rimanendo sull’esempio, è affrontare una rissa in strada e proteggersi il volto ma non sotto la cintura perché il regolamento dei giochi di lotta sportivi lo vieta. Se mai ci fosse una rissa invece sappiamo che non esistono regole e che chiunque si aspetti un combattimento pulito è destinato quasi sicuramente ad avere la peggio.

Nelle nostre vite è uguale: pensare che gli eventi rispettino le probabilità o pensare che gli eventi brutti rispetteranno comunque un copione o non saranno così drammatici ci espone ancora di più alla vulnerabilità.

Pornografia

Di pornografia me ne ha parlato il professor Alf Rhen con il quale ho avuto il piacere di parlare di questo nostro mondo così complesso e mutevole. La sua idea è che, nel suo campo, l’innovazione, come in altri, il problema principale sia dato dalle storie che ci vengono raccontate. Storie, come dice lui, pornografiche: versioni per così dire ripulite dalla realtà.

“La pornografia mira a raccontare storie semplificate e, appunto, ripulite, sul sesso. Questo perché nel mondo reale il sesso può essere una cosa molto complessa e complicata. Nel mondo reale le persone hanno inibizioni ed emicranie, per non parlare di impegni lavorativi pressanti e figli di cui prendersi cura. Nella pornografia non c’è nulla di tutto questo. In quel mondo fittizio tutti sono belli e tutto è bello. In altre parole, la pornografia è straordinariamente e meravigliosamente irrealistica. Il problema si crea se cominciate a credere che la pornografia sia una vera rappresentazione della realtà, e si aggrava ulteriormente se vivete la vostra vita come se lo fosse.”

Spiegati i due concetti, ecco il senso di “verità ludico-pornografica”, tutte quelle storie che ci raccontano, che ci raccontiamo, alle quali scegliamo di credere che sono ripulite dalla imprevedibile incertezza che domina le nostre vite.

Molti di noi sono assuefatti alla idea che la realtà debba essere bella e asettica.

L’incertezza alla quale siamo destinati nella vita reale ha poco a  che fare con quella degli ambienti sterilizzati che troviamo negli esami, nei giochi e nelle storie patinate della pornografia.

La vaghezza, come diceva Cicerone, è la vera natura dell’incertezza. E delle nostre vite.

Se usiamo le nostre menti per pensare e ci dotiamo di tutta l’immaginazione della quale disponiamo e abbiamo bisogno, possiamo sfuggire alle verità ludico-pornografiche.

Non prevedremo mai ciò che è imprevedibile ma eviteremo il fatalismo se penseremo bene e in modo utile.

E pensare bene implica sforzo immaginativo.

E qui mi ripeto: aspirare al meglio ma prepararsi per il peggio. Per tutti i tipi di peggio, anche quelli più brutti da pensare.

Perché anche se non è colpa nostra, dare ai cigni di tutti i colori del filo da torcere è il mestiere di noi esseri umani. Condividi il Tweet
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